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Il mondo perduto di Zio Ninuccio: un documentario sul vino del Vesuvio

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Boscotrecase, Napoli, alle falde del Mt. Vesuvius, per dirla con gli americani (e a chi non viene in mente il coloratissimo Vesuvius di Andy Warhol?): a più di 60 anni da Due soldi di speranza di Renato Castellani – il film che segnò l’inizio di quella fase del Neorealismo che fu detta “rosa” – un cineasta ritorna nella cittadina vesuviana, questa volta non per raccontare le peripezie amorose di due giovani nella provincia vesuviana del dopoguerra, ma la vita di un contadino novantenne, Carmine Ametrano, agricoltore da più di settant’anni, tra gli ultimi depositari di una cultura contadina che affonda le sue radici nell’antica civiltà pompeiana, di una sapienza tecnica nella coltura della vita e nella produzione del vino del Vesuvio, che è in fase di pesante declino e che è destinata a scomparire, se dallo Stato non arriveranno gli incentivi che valorizzino il capitale umano di queste terre.

Bene ha fatto Emanuele Tirelli a scomodare John Fante e i suoi personaggi di contadini immigrati dalle campagne italiane in America a proposito di Zio Ninuccio, cortometraggio documentario diretto dalla nippo-americana Noriko Sugiura per la Macilardi Media di New York City: Carmine infatti potrebbe benissimo essere uscito – nella sua grezza ma genuina bonomia, nelle sue espressioni proverbiali tagliate con l’accetta – dalla penna del grande scrittore di Denver (pensiamo a La confraternita dell’uva), che di quella stessa cultura contadina era figlio.

Una cultura, si diceva, in via di estinzione. Perché la terra – dice Carmine facendo sfavillare i giovani occhi – non la vuole lavorare più nessuno. Vittime di quella mutazione antropologica preconizzata da Pasolini, le generazioni degli ultimi decenni hanno dimenticato la terra, da cui tutti proveniamo e a cui tutti ritorneremo. Nel ritorno alla terra è la chiave del superamento di una crisi che è prima esistenziale, morale, e dopo economica. E il “giovane” vecchio Zio Ninuccio lo ribadisce con forza nell’asprigno del suo dialetto vesuviano, amabile e impastato dei sentori della terra come il vino che esce dalle sue cantine.

ninuccioSulle orme di quel documentarismo della nostalgia che fu del grande Vittorio De Seta, che negli anni ’50 e ’60 documentò la scomparsa in Italia degli antichi mestieri artigiani, Noriko Sugiura adotta uno stile di regia che è tutt’uno con l’empatia che instaura con Carmine – prima uomo poi personaggio – attraverso primi piani che surrogano ogni paratesto verbale, sui volti, sulle mani che raccolgono i grappoli, che li riversano nei torchi, che lavorano le botti (altra secolare tradizione in declino, di cui Boscotrecase può andare giustamente fiera), inframmezzando il racconto con squarci paesaggistici che introducono una sorta di ineffabile sospensione, mentre il ronfare sornione di qualche gatto (The cats will know – scriveva Pavese) sembra riassumere in sé il senso di un rapporto intimo e segreto con la natura (non era forse Issa – uno dei maestri giapponesi di haiku, che scriveva si sveglia/e sbadiglia, il gatto;/poi, l’amore?)

Zio Ninuccio, realizzato con intento no-profit per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla cultura viticola vesuviana, è disponibile per proiezioni gratuite presso enti, associazioni, scuole, ecc.

Per la scheda tecnica, il trailer, contatti e tutte le info:

http://zioninuccio.com/ 

https://www.facebook.com/macilardi?fref=ts [foto]

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