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Le dodici fatiche di Edu Vargas.

Un dire comune di teatrale radici sentenzia: “gli esami non finiscono mai”. Ma questa frase, sostanzialmente innegabile, diventa verità indissolubile soltanto nel caso si voglia volare alti. Perché se sei mediocre, o tendi alla mediocrità, gli esami puoi anche sostituirli con giornate al centro commerciale o inseguendo una libellula in un prato. Al di là del solito Mazzarri “non abbiamo mai parlato di scudetto”, tutti pensiamo che il Napoli debba poter competere per il gradino più alto, quest’anno. I motivi sono molteplici: una logica e necessaria parabola discendente delle milanesi; una Juventus che, seppur attrezzatissima, non appare onestamente in grado di avere già una rosa che crei un ciclo di vittorie consolidato, e in più le fatiche di Champion’s che dovrebbero ripercuotersi alla lunga; la Roma è un teatro aperto e la Lazio dello “spalma debiti” non sembra proprio in un momento storico che possa portarla a vincere, specie se ad un fantastico e ultratrentenne Klose (il tedesco impressiona ogni volta che è sul campo) si affianca uno smagrito Kozak. Resta il Napoli. Ma questo è il bello: Alvarez espulso per fallo da ultimo uomo dopo 2 minuti non solo non diventa un bonus per i partenopei, ma finisce anche per essere il boomerang che colpisce alla nuca una squadra presentatasi già sciatta e molle al cospetto di un Catania modesto ma, per certi versi, indemoniato.   E allora la partita si dipana in un mellifluo possesso palla degli azzurri contrapposto a qualche sfuriata in contropiede degli etnei. Di tanto in tanto anche il Napoli pareva premere sull’acceleratore, ma né Cavani, né Pandev, né tantomeno Hamsik sembravano ieri essere pronti a superare l’ennesimo esame. Per sfortuna nostra, ma soprattutto di Mazzarri e dei calciatori, stavolta non si può attingere al sacro alibi delle fatiche di coppa. Il Napoli ha sì passeggiato sull’Aik giovedì, ma con 10 ricambi. Vargas ha fatto la figura di Ercole, e nessuno ha dato grosso peso a certe solite nefandezze difensive o al fatto che alcuni giocatori, probabilmente, non sono ancora pronti ad essere un’alternativa all’altezza dei titolari.

La modesta Europa League, però, permette di passeggiare sui cimiteri di alcune squadre pur senza schierare fulmini di guerra, e Mazzarri fa benissimo a cercare di tenere intatta la lena fisica dei suoi 13 tenori. Ed è per questo che Catania non rappresenta un fallimento nel cammino complessivo ipotizzabile, quanto bensì la necessità di fare un J’accuse  ai giocatori e anche al tecnico, rei di essere scesi in campo in quelle che sarebbero dovute essere condizioni ottimali, agevolate incredibilmente dall’espulsione nei primi minuti. Invece ecco presentarsi un Napoli che conosciamo già: arruffone, un po’ supponente, e poco pratico quando si tratta di dover pensare soltanto al risultato. Quel Napoli che, dopo la partita con la Fiorentina, sembrava davvero essere riuscito a supplire a quella voglia di evitare gli esami.

L’Insigne subentrato ha provato pure qualcosa, ma onestamente non poteva da solo sopperire alla stanchezza di Maggio, ad un Aronica acciaccato, alla altalenante condizione fisica di Pandev e Inler. Il furetto di Fratta ci ha comunque profuso impegno e fatica. Non ha fatto lo stesso l’eroe di coppa, Vargas, che dopo la tripletta benefica concessagli dai ragazzotti svedesi, ha ripreso a sbagliare movimenti, incespicare nei suoi stessi piedi e addirittura ostacolare i tagli dei suoi compagni di reparto.
Il calcio non può mai portare catastrofi. A meno che qualcuno non cada vittima di scelleratezze. Il Napoli può sbagliare. Nessuno penserebbe ad un campionato da 100 punti. Bisognerebbe però soltanto capire, per la serenità di noi tifosi, se questa squadra può affrontare esami ogni giorno,  – anche fallendone i più – oppure crogiolarsi dentro una abbacinante mediocrità. È importante capire chi sei, cosa vuoi, persino in questo strambo e ruvido e deformato mondo che è il calcio.

Nessuno chiede lo scudetto, ma lottare per esso. Nessuno chiede a Vargas di inventarsi campione, ma che non venga venduto come un messia incompreso. Nessuno chiede 38 vittorie, ma 38 battaglie sì.

Ma chiederei a questa squadra una cosa, una cosa pratica e probabilmente assurda: di avvisarci in tempo. Perché quando loro non vogliono presentarsi all’esame, anche noi potremmo impiegare il tempo diversamente, piuttosto che restare lì, spalti o televisione, ad osservare uno spettacolo vuoto, urticante, senza storie, senza domande e, soprattutto, senza nemmeno una cavolo di risposta a cui potersi veramente aggrappare.

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