Paolo Coelho era un uomo di 47 anni che aveva venduto già svariati milioni di copie dei suoi libri, quando decise di non assistere ai calci di rigori che avrebbero assegnato la coppa del mondo, tra il suo Brasile e la mia Italia, ad Usa ’94. Andò in spiaggia, e aspettò che fosse la città a dirgli come sarebbe andata. Quando i boati sovrastarono i silenzi, lo scrittore capì che c’era stata la conquista della 4° coppa del mondo.
L’ansia, la rabbia, le aspettative, le paure, la gioia che esplode: il calcio è un distributore di emozioni in cui una volta inserita la moneta bisogna accettare qualsiasi cosa capiti. Milioni di persone si prostrano a questo Dio chiedendo quasi niente in cambio, se non appartenere.
Ogni tifoso degno di questo titolo, che sia dentro lo Stadio, davanti la tv, in una piazza ai piedi di un maxi schermo, chiede soltanto di partecipare. La vittoria conta soltanto nel caso essa arrivi, ma un tifoso sente il dovere morale di far parte della sofferenza, delle ingiustizie presunte o conclamate, anche nella sconfitta più clamorosa esso reagisce stringendosi ancora di più intorno ad una ipotetica linea di congiunzione che tiene tutti saldi, tutti uniti. C’è un aspetto estetico nel calcio, non v’è dubbio, e la gioia che procura un passaggio fatto coi giri giusti, un tiro all’incrocio dei pali, una finta che permette di sorpassare l’avversario, creano scalpore ed entusiasmo, generano urla e giubilo, ma è nel senso di appartenenza che un tifoso rimette le proprie speranze.
Il nome di una squadra che riscatti le agonie di una città, di uno stato, di un’intera popolazione.
Tutto questo a Napoli diventa sintesi perfetta. Ragazzi che al gelo di uno strano inverno moderno, ballano e cantano a petto scoperto, mentre l’odierna “Banda Mazzarri” sciupa occasioni e sbaglia passaggi. Certo, la festa è dietro l’angolo, a tre passi dal ricordo: a Dicembre il Napoli conquista una storica qualificazione agli ottavi di Champion’s League, la vera perla delle manifestazioni calcistiche per squadre di club. Ma oggi? Che sta succedendo oggi? Deludenti pareggi con squadre che imbarcano reti e brutte figure un po’ ovunque, mentre riecheggia nei tribunali l’ennesima onta di un calcio malato, prodotto imperfetto perché perpetrato da uomini per loro natura imperfetti e qualche volta ingordi ed ignobili. Ma quei ragazzi sono lì, di questi tempi all’addiaccio senza alcuna remora: che sia una fila per un biglietto, o sugli spalti d’uno stupido Napoli-Cesena in notturna. E non importa se quegli undici ragazzotti un po’ svagati e un po’ confusi lascino più che le briciole agli avversari: è la maglia che indossano a farli diventare Re.
Come dappertutto, i nostri spalti diventano i vicoli, le piazze malmesse, le strade piene di buche, ma sono i nostre e guai a toccarceli. Lasciate che siamo noi a lamentarci del nostro Napoli come della nostra città. Noi abbiamo bisogno di appartenerle, sembrano urlare quelle facce avvizzite da freddi polari così intensi e non più così rari. Nonostante abbia molte cose da dire sulla squadra, sul mercato estivo, sulle esitazioni di un allenatore che pare proprio aver perso la bussola, io voglio spendere queste righe per affermare con forza il mio appartenere, appartenere a questi colori, a questa maglia, a questa città. Proprio come questi ragazzotti cresciuti come me tra un quartiere sciupato e uno che prova ad imborghesirsi, pure io voglio gridare. Gridare ai miei dirimpettai che ora stendono bandiere bianconere fuori dai balconi, che sento urlare ad un gol dei ricchi diavoli rossoneri o che parlano di un recente “triplette” fuori il mio bar: a loro voglio dire alcune cose.
Uno stadio da poter vedere, toccare, vale più del più ricco dei palmares. La propria città in festa per la vittoria di una singola partita, vale miliardi di trofei. Le proprie strade colorate dai colori che ci riguardano, ci appartengono, non potranno paragonarsi a nessuna sfida galattica. Appartenere, è l’unica cosa che interessa ad un tifoso degno di questo titolo. Diventa quasi immorale crescere nella Sanità, a Cavalleggeri come a Ballaro’, al Vomero piuttosto cha ad Arghillà e sfoggiare, più alacremente in tempi fausti, bandiere di squadre i cui tifosi – di questi io parlo – non spenderebbero per loro una buona parola nemmeno sul letto di morte. Vale la pena soffrire, specie per noi qui giù, perché siamo ripagati dall’essere tutt’uno, privi di disgrazie, scevri dei soprusi sociali e culturali di cui il sud del mondo è pieno. Una livella spirituale, che accomuna quello strambo personaggio di Alessandro Pastacaldi, un ragazzo un po’ tardo del mio quartiere che tornò a casa senza una scarpa, festante per la prima vittoria del Napoli Soccer, a Paolo Coelho, uno dei più grandi Bestseller di quest’epoca, scrittore misterioso di questo sud del mondo, che scese in strada attanagliato dall’ansia, pronto a sfogare la sua gioia.
La gioia che azzera secoli di frustrazioni per città intere, milioni di persone che diventano una, felici di appartenere, di essere per una volta tutti figli di una sola madre che non include inferiori, che non include il disprezzo, ma soltanto la gioia, la felicità nell’appartenere, per una volta, essere tutti figli della stessa città, la propria città festante, senza distinzioni, senza vigliaccherie o inganni, la propria città urlante, sempre disgraziata ma per un attimo, un giorno, potersene dimenticare.