È finita così. Con la Juventus a festeggiare i suoi problemi di matematica, il Milan a snocciolare i saluti dei senatori che gravitano a metà fra un addio e un piagnisteo, l’Inter che vuole Lavezzi puntando sulla famosa attitudine del giocatore nel fare shopping, la Roma che trasforma un’annata calcistica in un vero e proprio paradigma di società moderna, con annessi moti carbonari, giochi di potere, tragedie, atmosfere da giochi coi gladiatori e il Napoli che deve limitarsi a guardare una società ben organizzata come l’Udinese raggiungere per il secondo anno consecutivo l’accesso ai preliminari della Champion’s.
È terminato uno dei campionati più mediocri degli ultimi 15 anni. La Juventus è stata la squadra più regolare e nonostante i 15 pareggi salta all’occhio il record di zero sconfitte, mai raggiunto prima nei campionati a 20 squadre. Il Milan ha fatto ciò che ha potuto, perdendo quasi contemporaneamente gran parte dei giocatori migliori, reggendo fino alla fine grazie alla costanza realizzativa dell’unico giocatore presente nel nostro campionato capace di vincere da solo. Ma così come le 23 reti di Cavani per il Napoli, nemmeno i 28 gol di Ibrahimovic (suo record personale in Italia) sono riusciti a sopperire ad un andazzo troppo discontinuo che ha fatto della Juventus una nuova squadra da record. Un plauso va rivolto in particolare ad Antonio Conte che, complici una serie di fattori convergenti, è riuscito al primo tentativo a riportare lo scudetto a Torino in una stagione dove le vie di mezzo non sono esistite, e dove le squadre che hanno sempre condizionato la lotta al titolo – Palermo, Genoa, Fiorentina – si sono imbattute in un’annata anonima, al limite della catastrofe sportiva. I verdetti dicono Champion’s League per Juventus, Milan e Udinese; Europa League per Lazio, Napoli ed Inter (in attesa della finale di Coppia Italia per stabilire chi farà i preliminari) e retrocessione per Cesena, Novara e Lecce.
A Roma, domenica sera, ci sarà l’ultimo atto di una stagione in cui il Napoli contenderà la Coppa Italia ai campioni d’Italia. Vale più una partita secca coi rivali apolidi della Juventus, che un trofeo che ci ha visto battere Cesena per sbaglio, Siena per necessità e un’Inter in balia di se stessa. Una guerra sportiva fratricida, visto che i tifosi bianconeri te li ritrovi pure sotto lo stesso tetto. Per loro non conta appartenenza territoriale, fede per un riscatto sociale, ambizione campanilista: in molte case italiane ci sarà un tutti contro tutti, ed è questa la cosa più odiosa nei tifosi juventini. Batterli è sempre stato come battere tutti. E forse per questo, nessuno.
Non è come il buio che è assenza di luce: i fischi possono essere il contrario degli applausi, ma con essi coesistere. Lavezzi ieri ha ricevuto entrambi, durante una partita che soltanto una schiera di persone poco realiste credeva potesse concedersi al miracolo. Nel calcio come nella vita ci si concede alla gratitudine, ed a mente fredda e cuore in Estate il pocho resterà nei dolci ricordi partenopei; ma la realtà dei fatti è che si parla di un giocatore che non si è mai esposto. Non ha mai preso le redini, né leader in campo (dapprima troppo solista e poi maturato non è comunque mai riuscito ad essere faro in mezzo al campo) né fuori, perdendosi nella gioia dei suoi anni, giocando ai capricci pre-festivi, ridendo e scherzando anche quando il tifoso avrebbe preferito scorgere empatia. Dicono sia un bravo ragazzo, che ha sempre dato tutto. Ora è giusto, dopo 5 anni in azzurro e 27 anni compiuti, che cerchi una squadra dove poter vincere, o almeno lottare per farlo; a 5 milioni all’anno. Per ogni Estate un caso: il suo procuratore non ci ha mai fatto dimenticare i limiti di questa società. Nei danari, negli obiettivi, nelle scelte. Questo imputo alla gestione De Laurentiis, principalmente: ogni giocatore che è sembrato diventare grande qui, non ha mai perso occasione per ricordarci quanto noi invece si fosse “piccoli, piccoli, ma col petto in fuori”. Lavezzi andrà via, Hamsik è stato in procinto di farlo l’anno scorso, Cavani molto probabilmente lo farà il prossimo Giugno: i fischi di ieri ci saranno per tutti. Così come ci sono stati gli applausi. Quando lo spettacolo è stato degno dei soldi e dell’amore profusi. Lavezzi mi ha divertito, in questi anni. Nella mia tribuna seguivo le sue saette, e ne sorridevo anche quando erano stupide ed inutili. Come ogni partenopeo, mi sono affezionato a quell’aurea scugnizza che si porta addosso. Ma non lo considero fondamentale, né lui né altri: ero vivo e vedente quando Maradona spiegava l’odio presente in ogni stadio, dal centro al sud, e che quindi, vittoria o sconfitta, si doveva restare tutti uniti, campo e fuori, e combattere, perché è soltanto calcio ma delle volte non ci sono altri modi per provare a venir fuori. Noi siamo il Sud, siamo Napoli, chiediamo quel che chiediamo, ma basta mazze e bombe, abbiamo la camorra e le eccellenze, e Lavezzi coniglio bagnato può ed ha il diritto di andare dove i soldi e la voglia di vittorie lo portano. Ai miei tifosi ieri non potevo chiedere niente. Non stanno distruggendo negozi, non ammazzano nemici sportivi, non fanno esplodere bombe: fischiano. Fischiano, come quando le donne e gli uomini si lasciano, senza che però qualcuno abbia le palle di prendere una posizione verbale precisa, coerente. Un vociare orribile, preludio di separazione dai soliti connotati. Che prenda una posizione anche il presidente. Che la smetta di fare Masaniello ad ogni vittoria, e il padre arrabbiato dopo ogni sconfitta. Non vogliamo padri. Ne abbiamo fin troppi. Vogliamo sì amore, ma gestione concreta, competenza tecnica, chiarezza nello stabilire obiettivi e limiti, perché è vero, come dice Mazzarri, che la macchina la si può portare oltre i limiti di tanto in tanto, ma il calcio è un fiume che scorre perpetuo, e non c’è bisogno di una favola al giorno. Chi comanda, chi gestisce, lasci al pubblico la scelta di crearsi il proprio principe azzurro e si comporti con determinazione e onestà.
Abbiamo vissuto giornate esaltanti, quest’anno. Non potrei esimermi dal ricordo di alcune notti. È per quel tipo di attese che vale la pena professarsi stupidi e urlanti sugli spalti di un’arena fatiscente. Il mio ringraziamento, quello di tutti i tifosi, è insito negli abbonamenti, nei pagamenti mensili della paytv, nelle ore passate all’addiaccio per un autografo o inzuppati da un mare di pioggia dicembrina, in piedi, con una sciarpa al collo e la voce sempre più rauca. Se ci sono rimasti dei fischi, che nessuno ci biasimi: come per un applauso, tutto ciò che succede nell’arena, lì deve restare. Delusione e amore non sono come luci ed ombre: essi coesistono.