Sarebbe impensabile per qualsiasi altro sport, quello che per il calcio è doveroso. Non poter scindere la fenomenologia sociale dagli aspetti agonistici e più prettamente sportivi. Juventus – Napoli è da sempre una sfida ricca di significati e rivalità: più che nord contro sud, è l’appartenenza territoriale vissuta nei suoi estremi più viscerali contrapposta ad una necessità furbetta dovuta principalmente ad una confusione storica, rintuzzata da una superficiale visione d’insieme che non distingue “il calciatore” dalla maglia che indossa. Una diaspora in stile moderno, dove più che vagare si preferisce approdare in una “terra di facili vittorie” . Liquidare modestamente la questione con un “si può tifare chi si vuole, è soltanto calcio” è l’errore più grande che si possa commettere a riguardo. All’apparenza meno dogmatica, la fede calcistica è spesso meno tollerante di quella religiosa. Dal dopoguerra in poi sfido chiunque, tifoso e non, a distinguere chiaramente le movenze cieche e dai connotati superstiziosi che si svolgono nei templi per l’anima da quelli che si ottemperano nelle meno prosaiche arene calcistiche. Ed ecco che ogni partita diventa una fotografia. Juventus – Napoli è oggi, visti anche gli ottimi risultati sportivi, la più importante istantanea laica di una società decisamente sconnessa, dalla diagnosi virulenta e poco incline, a differenza teorica dei Credo, al perdono. È notizia d’oggi quella che ci pone in visione il servizio pacchiano dello showman Amandola di Torino, che vuole intervistati un po’ di facilotti piemontesi (ho immaginato che lo fossero, ma non escludo l’errore) che pacatamente chiedono al Vesuvio di lavarci col suo fluido o che si chiedono come poterci distinguere, noi partenopei, se non dal pessimo odore che emaniamo ? Tutto questo su Rai 3. IL SERVIZIO PUBBLICO. De noialtri, direbbero a Roma, Italia. Ed è così che, ai miei occhi, pare persino scemare quella che è stata una sconfitta sì frutto di due episodi, ma sostanzialmente meritata, figlia di un’innata e acclarata inesperienza a certi livelli. Dote che il Napoli sembrava aver perso, e invece. E invece mi tocca chiedere scusa. Sì. Fare mea culpa manco fosse appena scaduto il giubileo. Lo faccio in nome di tutti, fregandomene del fatto che forse tutti non hanno proprio da chiedere scusa. E scusandomi prima di tutto per questo.
Chiedo scusa ai tifosi italiani tutti: per gli atti di vandalismo dei napoletani nei vari stadi d’Italia, per i cori ingiuriosi dei veronesi a Livorno, per l’inadeguatezza reiterata di alcune frange di quasi tutte le città del nord che esprimono con ribrezzo il loro disprezzo per gli abitanti del mezzogiorno, tutte cose queste che minano la focosa e volgarotta ma mai violenta voglia di rivalità della gente perbene.
Chiedo scusa a Mazzarri, perché pretendo da lui che la smetta di ricordarci di quanto è stanco nel fare calcio a milioni di euro l’anno alla fine di ogni partita persa, e cominci col parlarci della gestione di Insigne, di dove crede di poter arrivare e se magari non pensa di dover fare mea culpa sulle gestioni delle gare in corso.
Chiedo scusa al presidente Aurelio de Laurentis, perché sono umano, vivo, e allora dimentico dopo ogni vittoria le mancanze che comunque gli imputo, come la precarietà di investimenti atti a cercare di vincere, mantenuto a galla dal lavoro straordinario di ogni sua componente tecnica unito ad un periodo globale decisamente mediocre.
Chiedo scusa a Pandev, ché preso dalla foga del momento tendo a confonderlo per Iniesta, chiedendogli continui guizzi geniali e lucidità psicofisica.
Chiedo scusa ad Insigne, ma proprio non so rispondergli sul perché non giochi; manco la giovane età fosse un vizio, l’inesperienza una malattia da curare sul divano.
Chiedo scusa alla Juventus, essendomi fatto abbacinare dalle perpetue sviste arbitrali e del fato, che l’hanno lasciata imbattuta per ben 48 partire consecutive di campionato, non attribuendole i meriti di prima squadra d’Italia che oggettivamente detiene.
Chiedo scusa agli organi di stampa che inorridiscono giustamente per un treno però mai sfasciato, mentre lasciano scorrere il continuo e peregrinante odio razziale fra persone divise da poche centinaia di chilometri. Gli chiedo scusa, perché loro continuano ad andare avanti soltanto per la pigrizia delle nostre menti, obnubilate dalla voglia di trasformare un sabato e una domenica in un’esaltante e poco faticosa unione d’intenti e passioni. Così, non facendo altro che fomentare l’ennesima ingiustizia sociale che danneggia tutta la gente semplice e perbene che stigmatizza ogni affronto alla dignità di un luogo, uno spazio, altre vite che vengono sistematicamente offese, denigrate, lapidate nei casi peggiori.
Chiedo scusa a tutti i detrattori di questa passione – che essendo tale rende ciechi – che si domandano spaesati il perché della gente sia disposta a sguainare la spada per un incontro di calcio e non per tagliuzzare le mal’azioni sociali e chi le perpetra. A tutti questo però dico: oggi non c’è miglior modo di indagare un popolo, che andare nel suo stadio il giorno della partita.
L’assessore che ruba, il delinquente devasta, l’ignorante fomenta l’odio usando il distacco razziale inneggiando a scale di purezza; i neri e i napoletani puzzano, gli ebrei sono avidi, i Rom vivono rubando, gli slavi sono “gente di merda” e basta. Qualcuno dice che siano soltanto sfottò, questi. Come dire ai liguri che sono tirchi, ai francesi che sono saccenti e ai piemontesi che sono pedanti e un po’ noiosi.
Se in piazza dovessero scendere queste persone, probabilmente dopo poco tempo ci ritroveremo a fronteggiare un Hitler contemporaneo. Una società corrotta produrrebbe soltanto una rivoluzione corrotta.
E ogni maledetta domenica ve n’è dimostrazione.
L’unico a cui non chiedo scusa sono io. Non mi perdono. Che mi lascio ardere nei martedì senza fretta, nei giovedì interlocutori come legna messa ad asciugare, io e questa mia passione per questo sport, il mio voler profondere energie nelle attese, l’attese di partite così speciali, com’era quella di sabato; di questo amore per dei colori così limpidi, così accesi, con nuvole di sponsor e i troppi tatuaggi, che mi pare di tifare per un cielo di Maggio mentre alcuni aerei volano verso chissà quale silenziosa rivoluzione.