La redazione di Effetto Napoli è stata presente alla 69° edizione della Mostra del Cinema di Venezia per seguire soprattutto la flotta di film di autori napoletani o di ambientazione partenopea presenti al Lido, di cui si darà presto dettagliato resoconto. Intanto, un carrellata sui premi principali del Concorso.
Eccezion fatta per i premi assegnati ai film italiani (un’esagerazione il Premio Mastroianni a Fabrizio Falco per Bella addormentata di Bellocchio ed È stato il figlio di Ciprì, mentre l’osella per il miglior contributo tecnico, anziché a quest’ultimo, sarebbe stato più giusto assegnarla alla splendida fotografia del fiammingo La cinquième saison), con l’immancabile codazzo di polemiche provinciali per la mancata assegnazione di premi importanti alle pellicole nazionali, i verdetti della giuria di Venezia 69, presieduta da Michael Mann, sono stati sostanzialmente equilibrati, incontrando il favore di larga parte della critica e degli addetti ai lavori presenti al Lido: giusto il Leone d’oro per il miglior film a Pieta di Kim Ki-Duk (anche se a chi scrive non è parso il suo miglior lavoro, ma forse suona come una sorta di premio al complesso dell’opera), cineasta sudcoreano di culto in Europa, qui al suo diciottesimo lungometraggio in 16 anni di attività: dopo una pausa di tre anni (inframmezzata dall’«auto-documentario» Arirang, presentato a Cannes 2011), Ki-Duk propone al Lido una parabola morale di sconcertante attualità, stigmatizzando le aberrazioni dell’odierna egemonia mondiale del capitale finanziario nell’atroce e tenera vicenda che coinvolge l’apatico tirapiedi di uno strozzino, che mutila senza pietà i debitori insolventi, e una donna misteriosa che gli si presenta affermando di essere sua madre; tra climax di violenza verbale e fisica (quest’ultima quasi sempre fuori campo, a onor del vero) e squarci di dolente tenerezza, si consuma un apologo su colpa e redenzione destinato a lasciare il segno.
Come pure lascia il segno The Master, nuovo ritratto problematico nella Galleria a stelle e strisce di P.T. Anderson, meritato Leone d’argento ad una regia solidissima esaltata dall’inusuale formato in 70mm (anche se sono relativamente poche le sequenze panoramiche in cui il formato può dispiegare tutta la sua «potenza») che porta a casa anche la Coppa Volpi come miglior attore maschile divisa ex-aequo tra i due splendidi protagonisti, Philip Seymour Hoffman (nel ruolo di un guru spiritual-scientifico che adombra la figura del fondatore di Scientology) e Joaquin Phoenix, straordinario nel disegnare – tra scoppi di violenza e risa, rendendo espressivi perfino i battiti di ciglia – il personaggio di un dropout reduce di guerra che finisce nella rete del predicatore. Ma, se la regia e le interpretazioni sono perfette, non così la tenuta drammaturgica dell’opera, stranamente imprigionata proprio dalla mancata evoluzione psicologica dei protagonisti. Ma su questo punto ci si ritornerà.
Anche il Premio Speciale della Giuria – finito tra le mani dell’austriaco Ulrich Seidl (con tanto di figuraccia in mondovisione della giuria, che aveva scambiato il suo premio con quello a The Master) per Paradies: Glaube – ha il sapore più di un riconoscimento al complesso dell’opera che al valore intrinseco del nuovo lavoro, che ha destato più di una perplessità tra il pubblico veneziano: il secondo capitolo della trilogia Paradies è incentrato sulla figura di Anna Maria, fanatica cattolica che va in giro per Vienna ad evangelizzare i peccatori, salvo essere messa in crisi dal ritorno del marito musulmano. Per gli amanti delle emozioni forti, cui l’autore austriaco ci ha abituati.
Sacrosanta Coppa Volpi femminile all’israeliana Hadas Yaron (foto), nel ruolo di una giovane appartenente ad una famiglia di ebrei di tradizione chassidica, strepitosa nel dipingere con grazia e misura un personaggio sospeso tra ragioni del cuore e dettami religiosi, tra spensieratezza adolescenziale e prove di maturazione: Shira accetta di sposare il cognato rimasto vedovo pur di non allontanare dalla nonna il figlio della sorella morta di parto: Lemale et ha’chalal (Fill the void) di Rama Burshtein poggia quasi interamente sulla recitazione dei protagonisti, coinvolgendo lo spettatore nei rituali secolari delle comunità ortodosse ebraiche.
Di religione laica della libertà parla invece Olivier Assayas con il suo bel Après mai (Something in the air), giustamente premiato con l’osella per la meticolosa sceneggiatura, largamente autobiografico nel narrare la vicenda di un liceale militante di sinistra negli anni immediatamente successivi al bel maggio francese del ’68: nell’innocente spontaneità del protagonista (Clement Métayer) è racchiuso tutto lo slancio speranzoso di quell’epoca, le letture impegnate, la musica rock (strepitosa, come sempre nei film del nostro, la colonna sonora, con Barrett, Drake, Soft Machine, ecc.), l’amore libero, le droghe, il Grand Tour nei paesi d’arte (si toccano Pompei e la costiera amalfitana), per un percorso che per il protagonista, infine, sarà anche esistenziale e di maturazione individuale. Tra i più bei film sulla Contestazione dai tempi di Les amants réguliers di Philippe Garrel.
Photo©Michela Iaccarino