Ha cantato lo spirito del luogo e del (suo) tempo, le Basiliche Paleocristiane, l’Irpinia pasolinianamente oscillante tra ruralità e modernità, e l’italietta sempre appetibile bersaglio di provvidenziali giullarate, Vinicio Capossela, alla conquista dello splendido complesso architettonico di Cimitile con lo spettacolo, creato ad hoc per la XVII edizione del Pomigliano Jazz Festival, intitolato “Le vie dei santi”; ad accompagnarlo sul palco, calcando tricorni, sfoggiando basettoni da padri pellegrini, indossando cappe secentesche e camicioni à la Commedia dell’Arte, Vincenzo Vasi all’ipnotico theremin ed alle macchine; Alessandro Stefana alla chitarra, banjo ed harmonium, perfetto contraltare di Vinicio chitarrista; Dimitri Sillato allo splendido violino (soprattutto quando si faceva irish), Glauco Zuppiroli al contrabbasso; ed ancora, l’eccellente trombone di Mauro Ottolini, i suggestivi tamburi di Zeno De Rossi reduce dal matrimonio appena celebrato, fascia della Repubblica in spalla, dall’amico Vinicio; ed infine, i signori della musica delle origini: l’ultra-ottantenne Rocco Briuolo, mandolino elettrico tra le lente mani perfette e cappellone da gaucho che più southern non si poteva, ed i suoi figli, Giovanni e Vincenzo, ai mandolini acustici; Virginio Tenore, da Aquilonia, alla tammorra.
La passeggiata agiologica di Capossela prevede oculate soste di ebbrezza pagana: e così, se per San Canione, che è irpino, si canta Marajà, Arri Arri è una festa dei folli annunciata da Vinicio stesso; il sentimento torna ad essere di religiosa com-passione con lo struggente Lamento dei Mendicanti di quel Matteo Salvatore, cantore popolare del Gargano dopo la Prima Guerra, delle cui parole Calvino disse che “le dobbiamo ancora inventare”. Santo Nicola, per i popoli del nord Europa ancora babbo Natale ante-litteram, viene qui evocato in veste di protettore di chi va per mare: sotto la sua egida si suona la trilogia del mare, il Canto del Navigante (Enzo del Re), S.S. dei Naufragati e La Madonna delle Conchiglie, a chiudere questo piccolo ciclo dell’umana pietà.
Santo Michele di Monte e San Liborio finiscono comunque entrambi diritti Al Colosseo, dove il live si sfrena: Vinicio annuncia il rito pagano (che per un divertente lapsus diviene inizialmente “pagato”) e catartico, che non può che passare per la foja de Il Ballo di San Vito, che il mattatore Capossela affronta indossando una rituale maschera, non di capro ma di bove, a ricordarci che il cerchio della purificazione si chiuderà nei campi dove tutto nasce e ri-nasce. E come Cristo, c’informa Capossela, così risorge Paolino dei Gigli, miracoloso vescovo di Nola e signore delle Basiliche Paleocristiane: a lui è interamente dedicata L’Uomo Vivo, che è pazzo di gioia come ora Vinicio stesso e tutti noi.
I colori della musica si fanno più desertici con la versione caposseliana della tonada cilena Ojos Negros, Occhi Neri; acquisisce spazio il comparto dei mandolini, ed il vecchio Rocco sembra veramente un Johnny Cash della valle dell’Ofanto adesso: San Rocco viene glorificato da Che cos’è l’amor e si auto-celebra, supportato dai figli, con un assolo di mandolino elettrico ai limiti dell’alt-country. Ma non si fa a tempo ad abituarsi ad un gigante che se ne aggiunge subito un altro, sul palco con Vinicio ed i suoi: è Francesco “Ciccillo” Di Benedetto, nume tutelare di Vinicio dai tempi delle cantate ai matrimoni; a Ciccillo viene lasciata una accoratissima ( e bonariamente esilarante) interpretazione di Core n’Grato, in cui è centrale la figura del confessore, notoria guida per le vie del sacro. E ne passerà ancora d’acqua pagana sotto i ponti prima e dopo Ciccillo ( Ehi Cumpare, Il Veglione), prima che Vinicio si decida a rompere gli indugi e liberare gli incanti con la benedizione, ma struggentemente carnale, di Ovunque Proteggi.
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