Quando si associa la figura di Abraham Lincoln (1809 – 1865), sedicesimo presidente degli Stati Uniti d’America, alla settima arte, la memoria del cinefilo e dello studioso non può non andare a Nascita di una nazione (1915) di David W. Griffith – uno dei capolavori fondanti della sintassi cinematografica (ma che non risparmiò all’autore pesanti accuse di razzismo), in cui l’assassinio del presidente per mano di John Wilkes Booth (un attore simpatizzante sudista che nel film è interpretato dal futuro grande regista Raul Walsh) fa precipitare la situazione rinfocolando i rancori tra masse nere emancipate ed élite bianche – e ad Abramo Lincoln (1940) di John Cromwell, un onesto biopic targato RKO in cui il presidente ha il volto rassicurante e le lunghe leve di Raymond Massey, uno dei migliori caratteristi dell’epoca nel raro ruolo di protagonista.
A più di 70 anni da quella pellicola, Steven Spielberg torna a raccontare le gesta di Lincoln ma si sofferma su un segmento preciso della sua vita e della sua attività politica: le poche settimane – tra la fine del 1864 e l’inizio del 1865, durante i colpi di coda della Guerra di Secessione Americana – che conducono all’approvazione del celeberrimo 13° emendamento della Costituzione a stelle e strisce, che sancisce la fine della schiavitù nel Grande Paese. In 150 minuti in cui Spielberg (concludendo una sorta di trilogia ideale iniziata con Il colore viola e proseguita con Amistad) sfodera con convinzione la lezione di un cinema tenacemente classico, assistiamo al dispiegamento utilitaristico di tutto l’armamentario politico e retorico di cui Lincoln dispone per mandare ad effetto l’approvazione dell’emendamento: contropartite con l’ala moderata dei Repubblicani, audace e machiavellico voto di scambio per convincere i più riottosi deputati del Congresso (anche democratici), trattative segrete con i delegati della Confederazione per porre termine alla guerra, ma anche e soprattutto un sincero anelito di uguaglianza sociale. Ogni film che riguardi la storia passata, si sa, è un monito per il presente e qui il messaggio rivolto al primo presidente di colore americano della storia non è nemmeno tanto larvato nel suo suggerire un acrobatico machiavellismo adeguato ai tempi che corrono per condurre in porto battaglie determinanti per l’attuale democrazia americana (e in definitiva mondiale: sanità pubblica, riforma delle armi, uscita dalla crisi economica).
Daniel Day-Lewis dà qui una prova di mostruosa aderenza mimetica al personaggio (lo aiuta anche la statura: Lincoln era altissimo per la sua epoca!) che nell’edizione italiana possiamo ammirare solo a metà (nonostante gli sforzi del pur bravo Pier Francesco Favino nel doppiaggio, che non evita tuttavia un certo tono monocorde), mentre la sceneggiatura di Tony Kushner (dal suo lavoro teatrale) è calibrata nel sottolineare con puntiglio gli artifici dialettici e retorici che sostanziano gli infiniti dialoghi dei protagonisti («un film molto parlato», verrebbe da dire, parafrasando De Oliveira) e la regia di Spielberg forse un po’ statica ma attenta a non togliere la scena agli attori, a fare sempre un passo indietro nei momenti clou.
Perfetti nel cast anche Tommy Lee Jones (nei panni di un fervente lincolniano), Sally Field nel ruolo di Mary Todd Lincoln, la vecchia gloria Hal Holbrook (il senatore Preston Blair), David Strathairn (il segretario di stato Seward), Joseph Gordon-Levitt (Robert Lincoln).
Lincoln (USA 2012, col., 150’) di Steven Spielberg
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