Sgombriamo subito il campo: La Grande Bellezza, sesto lungometraggio di Paolo Sorrentino, non è il capolavoro che ci si attendeva, e nemmeno il suo miglior film (che resta Il Divo), ma forse non meritava la tiepida accoglienza che gli ha riservato il Festival di Cannes, dove rappresentava l’Italia nel Concorso. Polifonia iperrealista sul vuoto morale e spirituale della Roma contemporanea, scoperta metonimia della Nazione, conte moral barocco e a tratti allucinato, l’opera di Sorrentino ha innanzitutto il pregio di giocare apertamente con i propri referenti cinematografici, ed anche se la «sfida» a distanza con il Fellini de La Dolce Vita (apertamente chiamato in causa) è perduta, va tuttavia ammirato il coraggio di confrontarsi con il valore estetico e spirituale di questo totem della cinematografia mondiale. Perché di aggiornamento ai tempi della Dolcevita si tratta, anche se Sorrentino guarda anche al Fellini di Roma e allo Scola de La terrazza (peraltro, ultimo grande affresco corale che gli schermi di casa nostra ricordino). Chi è infatti Jep Gambardella (Toni Servillo – bravo, si, non si discute – ma nelle ultime prove tendente ad avvitarsi in una sorta di surplace mattatoriale) se non un Marcello Rubini più disincantato e cinico, sorta di Grande Gatsby de noantri con le sue feste tanto roboanti quanto volgari, finito a fare il cronista per un rotocalco dopo il fallimento della sua vocazione di scrittore (suo un unico romanzo giovanile, L’apparato umano), perennemente circondato da intellettuali fintamente progressisti, grossolani parvenu, artisti sui generis, attorucoli e attricette, nane, suorine, papponi, scambisti, nobili decaduti ridotti a comparse per feste, un’umanità vacua in cui solo a tratti traluce qualche barlume di verità (la spogliarellista matura di Sabrina Ferilli, fortemente debitrice della romanità fragile e spontanea di una Giovanna Ralli, l’amico drammaturgo ingenuo e trasognato interpretato da un ottimo Carlo Verdone in versione drammatica, parte che avrebbero meritato maggior sviluppo), mentre la «Grande Bellezza» intravista in gioventù negli occhi dell’unica donna forse amata non è ormai che un diafano miraggio nemmeno più inseguito…
Nel ventesimo anniversario della scomparsa del Grande Riminese, la pellicola di Paolo Sorrentino è il più bell’omaggio che gli si potesse dedicare: l’unghiata sorniona del fellinismo è praticamente ovunque: nel bestiario grottesco e tenero (giraffe a Caracalla, orsi giganti di pelouche, cani di terracotta, i fenicotteri sulla terrazza di Jep che popolano una sequenza destinata a restare nella memoria), nell’incipit con i turisti giapponesi che riporta la memoria a Intervista (1987), nel cardinale di Herlitzka più propenso a elargire consigli culinari che spirituali (ancora una volta Roma), nella «mostruosa» santa centenaria che pure ha per Jep una funzione rivelatrice…
Ma Sorrentino non scompare dentro questo suo sogno di fellinismo «impossibile» e, se non tutto si tiene nella sceneggiatura (scritta a quattro mani con Umberto Contarello), ed anche se talvolta fa capolino qualche acrobazia di troppo della macchina da presa, il segno del napoletano è perfettamente riconoscibile nel racconto di una Capitale in cui sacro e profano si mescolano e confondono, capace di inabissarsi in sordide bettole e di farsi riscoprire nel cuore di una visita notturna (la fotografia di Luca Bigazzi fa letteralmente «miracoli») nei palazzi signorili (di nuovo Fellini…), oppure di regalare sguardi (commovente il cameo truffautiano di Fanny Ardant) che fanno balenare una vita altra possibile, che Jep non ha più occhi per vedere (e a quale cinefilo non verrebbe in mente il finale de La Dolce Vita?).
Photo©Michela Iaccarino
La Grande Bellezza (Italia 2013, 142’) di Paolo Sorrentino
A Napoli nei cinema:
Multisala Filangieri
Martos Metropolitan
Arcobaleno
The Space Cinema