Mi ha fatto molto piacere incontrare Giuseppe de Rosa. Conoscevo già le sue doti di attore di cinema e teatro, ma non avevo ancora avuto l’occasione di incontrarlo di persona. Sono rimasta subito colpita dal suo garbo, dalla cultura e dallo spessore delle sue parole: le cose che racconta hanno una grande consistenza umana e sociale. E poi è un profondo conoscitore della storia e delle tradizioni di Castellammare di Stabia, la città della Penisola Sorrentina dove è nato e dove ancora abita quando non è a Roma o comunque in giro per set. Più conosciuto per fiction, serie Tv e cinema di genere (ha lavorato, tra le altre cose, con i fratelli Vanzina nel film South Kensington con Giampaolo Morelli e nella serie Tv Anni Cinquanta con Ezio Greggio e Sergio Solli, mentre ultimamente era il padre di Manuela Arcuri nella fiction Pupetta, il Coraggio e la Passione, andata in onda su Canale 5 – prodotto un po’ controverso, ma questa è un’altra storia) in realtà de Rosa ha una solida formazione classica (che nasce dalla frequentazione delle tavole del palcoscenico da ragazzo fino all’incontro con De Filippo) e una forte carica emotiva e personale.
È per questo che auspicherebbe esplorare meglio il cinema d’impegno e il racconto sociale, anche se si dichiara soddisfatto di quanto fatto finora (e io concordo, perché lo ha fatto proprio bene). Al suo attivo, in questo senso, ha già una bella freccia nel suo arco: ha lavorato, infatti, per la sceneggiatrice e regista piemontese Giovanna Gagliardo nel documentario Venti Anni, un bel film in cui si racconta il ventennio che va dalla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) al crollo della banca americana Lehman Brothers attraverso la storia emotiva dei due protagonisti, Marta e Giulio, entrambi lavoratori precari, l’una tedesca, l’altro italiano. Il film segue il percorso di vita dei due giovani, dai festeggiamenti per la caduta dell’atroce muro alla disillusione della loro contemporaneità romana fatta di attese deluse e scarsissime aspettative. Giuseppe mi spiega che questo non è, però, un film costruito sulla negatività, ma che in esso è contenuto il germe di un certo ottimismo basato sulla volontà di rimboccarsi le maniche e lavorare per un futuro diverso, se non migliore. Il cinema, così come lo spettacolo tutto, secondo De Rosa, dovrebbe – deve – avere un rimando al sociale, all’impegno. Deve essere, quando non è intrattenimento (e qualche volta ci sta, diciamolo pure), spunto di riflessione e invito all’esplorazione dell’interiorità. Non deve essere troppo distante da noi ma, anzi, avvinarci al futuro con uno sguardo continuo verso quanto ci siamo lasciati alle spalle.
Abbiamo parlato fitto per un paio d’ore, io e Giuseppe, soprattutto di come si è trovato sul set e con il cast del documentario (benissimo, in particolare ha legato molto con Enrico Ianniello, col quale andava ogni sera a cena), del successo che il film ha avuto a Berlino e degli argomenti toccati dalla storia. Venti Anni è la descrizione di un ventennio non solo personale, ma storico, è un’analisi che non si ferma alla superficie. Vent’anni densi di passaggi e cambiamenti epocali come la riunificazione tedesca, l’attacco alle Twin Towers, il susseguente Ground Zero e la crisi economica globale che si intrecciano inevitabilmente a vicende private. Giuseppe mi fa notare che nel film si avvicendano le riflessioni di alcuni esperti che s’interrogano sul significato di quest’ultimo ventennio della nostra storia. E, ancora, mi racconta un mucchio di cose sull’esercizio della volontà, sul potere della lungimiranza e sull’inutilità della strategia, non quella pura, ma quella applicata all’arte, alle relazioni e alla vita di ogni giorno. Mi parla dello storico antifascismo di Castellammare, delle lotte operaie e conclude spiegandomi che ne farebbe altri mille di documentari come Venti Anni, pur non disdegnando il cinema e la tv già esplorati e rimanendo con i piedi sempre piantati nel suo grande amore, il teatro. Il film della Gagliardo è incastonato in uno scenario che val la pena guardare. È un percorso sociale che parla di un dissesto ideologico, è una critica al sistema capitalista e assolutista, è un occhio molto più che critico su strutture sociali che quanto meno strizzano l’occhio a certe oscure forme di totalitarismo. È una riflessione dinamica, un approdo nuovo. E Giuseppe de Rosa, accanto alle “Pupette” e ai film “vanziniani” ne farebbe ancora molti altri così.
Grazie, Giuseppe.
[Foto: http://www.sceglilfilm.it ]