Ho le farfalle nello stomaco, mentre me ne vado all’ascolto della session acustica tenuta da Paolo Benvegnù alla Galleria 19 lo scorso sabato: e non è gastro-sindrome del fan, e nemmeno quest’influenza “di pancia” che gira; è la collisione dei desideri, che mi accade perché, come mi suggerisce liricamente Paolo con uno dei singoli più attesi dal pubblico del club di via San Sebastiano (Suggestionabili, Piccoli fragilissimi film, 2003), sono “troppo suggestionabile” e “voglio assaporare ogni secondo che avrò”, per ascoltare pure per chi non c’è.
Ed entriamo a fatica in Galleria, io ed il mio sciabordio di dentro, pronto a sciogliersi dentro il fluire essenziale di un concerto potenzialmente “sul fiato” e asciugato della connaturata malta rock-italica, sinuosa e densa.
Il set mantiene a fatica le promesse di cui è carico, e di fiato “i Benvegnù” in versione ridotta, vale a dire il cantautore stesso e Guglielmo Ridolfo Gagliano qui alla Les Paul, violoncello elettrico, pedal steel e tastiere, sono costretti a regalarne un bel po’ alla allegra indisciplinatezza del pubblico del club; tuttavia Paolo fa di necessità virtù, ed apre alle ventitré in punto uno spettacolo prezioso, coraggioso, professionale e…divertente.
In scena coi due, in absentia, foto-faccia sorridente incollata sopra un busto di donna accomodato sopra un obsoleto divano in pelle, il bassista Luca Baldini, mentre è una proiezione sul fondo il volto del “profeta” Andrea Franchi (batterie, chitarre, synth, pianoforte, autore ed arrangiatore).
Benvegnù illustra il suo spettacolo in quattro tempi “come il motore a scoppio o un incontro dell’NBA”, con le parti musicali intervallate dall’allucinato epos della banda con “l’uomo bellissimo, d’un fascino d’altri tempi” (il Benvegnù stesso!), capitanata dal gattone Ofto Siffredi, come a dire il personaggio di Carroll nella dizione di Tiziano Ferro, e presumibilmente super-dotato. La sconclusionata combriccola, che sembra uscita dalla testa di Elio dei tempi migliori, affronterà, nel corso del concerto, villaggi che “s’affastellano alla vista” e “boschi di sicomori”, polke “inudibili” e piogge di corpi di Kidman, Aguileira e Toulouse-Lautrec a rompere il silenzio ammiccando “voulez-vous coucher avec moi, ce soir?”. Quella di Ofto ed i suoi è una “vicenda vera”, debitamente innaffiata di “lacrime, sperma e umori”, ma per il gattone finisce bene: si lascia sedurre dalla Ninfa in quattro quarti, si trasforma in Pelù ed in sostanza se la gode, non senza avere prima acquisito profonda consapevolezza di “luci ed abissi”, mentre il profeta Franchi, voce-off, c’informa che non può “portare il peso del mondo sulle sue spalle”.
Il delirio divertito delle storielle ed il sarcasmo sulla pomposità del parlare forbito, ma pure su quella dei “giovanilismi”, aiutano Benvegnù a superare, con classe e disponibilità, il rumore intorno, e ci regalano un interessante ossimoro con l’incantevole e disperante pregnanza emotiva della parola delle canzoni, nel quadro della ricerca meticolosa ed un po’ spasmodica di linguaggi, della quale il cantautore sembra avere un bisogno, per nostra fortuna, inesausto.
Le canzoni di Hermann (2011) occupano naturalmente una gran parte del live: lo spirito filosofico ed universalista del disco, che è come un film mai girato od una chanson de geste con tanto di espediente letterario del manoscritto ritrovato a far da cornice, cede volentieri il passo ai lavori precedenti, quelli dell’amore umano: come cartoline da un passato remoto suonano le canzoni da Piccoli Fragilissimi Film (2003): “Il sentimento delle cose”, “Il mare verticale”, “E’ solo un sogno”, che offre all’artista lombardo l’ennesima possibilità di prendersi in giro degenerando simpaticamente in “ah, il sogno, questo folle sentimento che…”!
L’assetto acustico in alcuni casi regge bene il confronto con le versioni originali, in parecchi altri ne intensifica la potenzialità, e la trasforma pure: è il caso di “Avanzate Ascoltate” (Hermann, 2011), ancor più epica e filosofica in versione “nuda”, ma pure di “Quando passa lei” (Piccoli Fragilissimi Film, 2003), che diventa intimamente leziosa, quasi un piccolo valzer malinconico. E’ decisivo l’assolo di violoncello in “Andromeda Maria”, così ancora più bella e vibrante, e cristallina la pedal steel di “Achab in New York”, che si asciuga così del corposo arrangiamento della versione originale.
“Cerchi nell’acqua” (Cerchi nell’acqua, 2005) somiglia deliziosamente a se stessa grazie alla chitarra di Guglielmo Ridolfo Gagliano, mentre “Simmetrie” (Armstrong, 1999) si fa importante grazie alle ampie frasi di violoncello e “Troppo poco intelligente” (ancora da Armstrong) diventa l’estrema occasione per sfottersi, con quel “Diooo” cantato alla Pelù ed il ritornello di “Alejandro” della Gaga incollato in coda.
Sensuale e mai del tutto privo di autoironia l’omaggio a Le labbra, 2008, con “La schiena” ed “Il nemico”.
Il bis, l’unico dentro un vociare frettoloso, è “Johnnie and Jane”, forse il più intimista di Hermann: colpo basso, Paolo, che il mio “mar adentro” non s’è certo calmato, ma adesso me lo porto con soddisfazione fuori dal casino, augurandoti che quel de-siderare, cioè quello che ci spieghi significare “andare verso le stelle”, che è leitmotiv in Hermann, si conservi in te senza posa.