Può sembrare alquanto pretestuoso prendere le mosse dalle origini campane di Bruce “The Boss” Springsteen (i nonni materni erano originari di Vico Equense, ed ora la cittadina campana sta discutendo una delibera comunale per dare al “rocker” di Freehold, New Jersey, la cittadinanza onoraria, in concomitanza del suo “tour” italiano, che – tra il 7 e l’11 giugno prossimi – toccherà Milano, Firenze e Trieste) per parlare del suo ultimo, strepitoso, lavoro discografico, “Wrecking ball”, uscito da pochi mesi per la fedele Columbia, ma cogliamo volentieri il pretesto. Dopo le ultime due prove non proprio convincenti (“Magic” e “Working on a dream”), il Boss sembra tornato al suo meglio e, se quattro anni fa “lavorava ad un sogno” insieme ad Obama, ora nutre molto più disincanto e invita ironicamente il popolo a stelle e strisce a “cavarsela da solo” (è il tormentone del singolo “We take care of our own”, un rock puro e duro come il granito official video), come pure a portarsi appresso una “wrecking ball” (la sfera d’acciaio per le demolizioni) per scagliarla contro ogni ingiustizia, quasi fosse una palla da baseball (e la “title track” è un inno degno di “Born to run” e del periodo “aureo”); ma il nuovo capitolo del Grande Romanzo Americano di Bruce si arricchisce di tasselli preziosi: come le splendide “Easy Money” e “Death to my hometown”, che denunciano la cupidigia del sistema economico contemporaneo e la ferocia dei nuovi “masters of war”, sorprendendo con arrangiamenti dal sapore celtico, memori del lavoro filologico già svolto in “We shall overcome” sui canti popolari irlandesi (l’altra metà del sangue springsteeniano è infatti “irish”); “Jack of all trades” è una ballata dolente che si innalza dalle ceneri del sogno americano al tempo della crisi (e che ricorda lo “spleen” lacerante di “Nebraska”), mentre “Land of hope and dreams” è un testardo inno di speranza che riporta alla mente le grandi narrazioni di “Jungleland” e “Racing in the streets”. C’è spazio addirittura per un coro gospel (in “Shackled and drawn”) e per il rap (“Rocky ground”), prima di chiudere con la sorridente marcetta cimiteriale di “We are alive”, che strizza l’occhio si a Lee Masters, ma in fondo anche a “Cemetry Gates” dei buon vecchi Smiths.
In attesa del tuo arrivo a Vico Equense, ascoltiamo il tuo consiglio, Boss: proviamo a cavarcela da soli!