Domani, 19 febbraio 2013, Massimo Troisi (San Giorgio a Cremano, Napoli, 19 febbraio 1953 /Ostia, Roma, 4 giugno 1994), compie sessant’anni. Dico compie e non avrebbe compiuto, perché per me – e non credo di essere la sola – è sempre vivo. Da anni fa parte della mia vita (da spettatrice prima e da studiosa poi, tra tesi, scritti vari e libro quasi finito) e non credo ne uscirà mai. Su di lui è stato già detto tutto ed è ormai molto difficile pensare anche solo a un aggettivo, a un’immagine, a una definizione nuova. Un genio nato in un territorio di confine, un poeta, un filologo delle tradizioni (se pur sovvertite), un filosofo, un comico, un fine analizzatore dell’uomo e delle sue emozioni, ma soprattutto un raffinato interprete teatrale. I suoi testi erano impregnati di tradizione culturale napoletana (nonostante l’intelligente e finissima idea di ribaltamento del concetto “solito” di napoletanità) e di studi “personali” del lavoro di grandi autori come Pasolini, fonte d’ispirazione di cui divorava praticamente qualsiasi cosa. Carismatico, magnetico, forte ma garbato oltre che indimenticabile, è stato il primo ad avere il coraggio di rappresentare le sue opere e il relativo pensiero in dialetto stretto, senza curarsi di quello che avrebbe detto la critica o, magari, il pubblico di altre zone d’Italia. Niente da fare, quello che aveva da dire doveva dirlo per forza in napoletano, “si capisc va buon, asinò te futt”, lo stesso credo dell’amico Pino Daniele. Che poi pubblico e critica siano quasi sempre stati d’accordo con questa e altre scelte è un dettaglio. Un vero cultore del “nuovo” con i piedi, però, piantati nel passato, allergico alle banalità dei luoghi comuni e agli stereotipi spesso più dannosi che altro. Ci ha offerto cinema, teatro, cabaret, apparizioni televisive, spesso vere e proprie perle comiche – ma anche spunti di saggezza popolare – prima con La Smorfia, lo storico gruppo con Lello ed Enzo e poi con i film, attraverso gli indimenticabili sodalizi con Marcello Mastroianni, Ettore Scola e, il più importante, quello con Roberto Benigni. Mimica potente, atteggiamento schivo, monologhi arrotolati e farfuglianti che ricordano (e qui sì che possiamo farlo, il paragone) il grande Eduardo de Filippo, Massimo Troisi è stato uno dei più grandi pensatori e analizzatori della sfera affettiva del Novecento, un grande autore e un vero poeta pop. La sua capacità di scomposizione e rimontaggio di una nuova napoletanità ha saputo anticipare i tempi ed è anche per questo che lo ritengo autore veramente moderno.
Sessant’anni sono un traguardo speciale e dobbiamo continuare a considerare Massimo come quell’amico o quel famigliare che ci sostiene nel momento di difficoltà, facendoci sorridere ma anche riflettere su quello che ci succede. Aveva solo quarantun anni quando è andato via, troppo pochi a dire il vero, anche se ha avuto il tempo di consegnarci capolavori assoluti come Ricomincio da tre, Che ora è e Il Postino e innumerevoli lezioni di vita, d’affetto, d’amicizia, oltre che di significati. A lui diamo il merito di averci restituito la napoletanità più vera, quella fatta d’introspezione, cultura profonda (magari, sì, legata alla terra e alle usanze) e di tenera “mascalzonaggine”. Una cultura unica nel suo genere e unica nel mondo. Forse qualcosa di simile (per gli aspetti positivi come per quelli negativi) la ritroviamo solo nei Paesi dell’America Latina. Una lucentezza, un calore, anche una violenza d’immagini e parola, irripetibile, incomparabile. Massimo Troisi ha saputo, però, sfrondare tutto questo folclore dal manierismo più feroce e da quell’inutile macchiettismo che troppo spesso ha segnato irrimediabilmente un’appartenenza sociale. Massimo mi incantava, soprattutto, mi incantava quella tenerezza semplice eppure così carica di significato. Giorni fa ho rivisto il video in cui fu candidato all’Oscar per Il Postino e sentire Jessica Lange pronunciarne il nome mi ha fatto venire i brividi. Quella candidatura, anche se postuma, mi ha dato soddisfazione, perché ho sentito che in quel momento “il mondo intero proprio” si accorgeva di lui e ne percepiva lo spessore umano. Magari attraverso lui si rendeva conto di quanto speciali sono i napoletani. Sento che Massimo Troisi può diventare (forse già lo è) un modello per le giovani generazioni, come cineasta e come uomo. Ho un solo grande rammarico: ho conosciuto tutti (o quasi) quelli che gli sono stati più vicino, sono diventata amica di Enzo Decaro, di Anna Pavignano, di Renato Scarpa, di Alfredo Cozzolino e della sorella Rosaria, ma non sono riuscita a scambiare una parola con lui. Ho fatto troppo tardi ed è un mio cruccio, anche se non è stata colpa mia. Mi conforta sapere che la sua vita c’è ed è servita (e serve) a smussare gli angoli più difficili delle nostre e ad allietarle, così come a renderle più intense. L’anno scorso l’abbiamo ricordato con un bel convegno a San Giorgio a Cremano al quale parteciparono, fra gli altri, Enzo Decaro, Renato Scarpa, Anna Pavignano e molti professori di teatro e critica cinematografica dei prestigiosi atenei napoletani, da Pasquale Sabbatino a Valerio Caprara. Fra loro, timidamente, anch’io raccontai quello che Massimo ha significato per me e quello che ha saputo portare nella mia formazione personale. Anche domani ci saranno delle commemorazioni che andranno ad arricchire il suo baule di ricordi e testimonianze, sempre più ricco e consistente. Adesso però, senza voler fare un’apologia, lasciatemi dire che Massimo Troisi è stato il sensibilissimo portavoce di più di una generazione e che credo che sarà così ancora per molto, moltissimo tempo, forse anche per queste generazioni e per quelle a venire. Senza di lui, ormai c’è poca storia. Auguri, Massimo, dovunque tu sia.
(Photo©Michela Iaccarino)