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In memoria di Fabrizio Dé André, autore di “Don Raffaé”

Fabrizio De AndréEsattamente l’11 gennaio di 15 anni fa se ne andava uno dei più grandi cantautori (e poeti) del Novecento almeno in Italia. Il suo nome era Fabrizio, il suo cognome era De André e penso che non abbia bisogno di presentazioni. All’epoca non era neanche anziano. Aveva 59 anni ma fu stroncato da un tumore (De André era un tabagista e, come disse ad Andrea Scanzi il figlio Cristiano, ebbe problemi con l’alcool).

Ci sono rimaste le sue poesie, certo. Ci sono rimasti una miriade di versi bellissimi, è vero. Ma ci manca un artista ed un intellettuale come “Faber”. Ci mancheranno i suoi sogni. Ci mancheranno la sua visione del mondo, le sue opinioni o le sue invettive. Ci mancheranno le sue riflessioni su amore e morte o sulla politica piuttosto che sulla follia della guerra. Non abbiamo più il suo amore incondizionato per la vita o per gli ultimi. Transessuali o prostitute che siano. Bisognerebbe rivalorizzare questo grande uomo a partire da un editoriale che scrisse Michele Serra su La Repubblica il giorno dopo la sua morte. Serra infatti ricordava come Dé André, pure essendo nato da un’agiatissima famiglia genovese, “dalle puttane, dai carcerati e dagli emarginati cantati (e cullati) nelle sue prime ballate, passò agli indiani d’America, agli umili morti di provincia di Spoon River, ai poveri cristi dei Vangeli apocrifi, agli anarchici più esplosi che esplosivi, ai barboni bruciati da Ludwig, ai transessuali, ai lavavetri, a chiunque incarnasse la poesia della sconfitta. Persino del suo rapimento, patito insieme alla moglie Dori Ghezzi, seppe cantare (in Hotel Supramonte), a partire dalla percezione della debolezza dei suoi aguzzini, con una sensibilità che qualcuno, grossolanamente, giudicò ideologica, mentre era, allora e come sempre, solo e soltanto poetica“.
Chi lo ha amato e come noi è napoletano ha sicuramente apprezzato la canzone Don Raffaé, ispirata dal boss della malavita organizzata Raffaele Cutolo. La canzone, incisa nell’album Le nuvole nel 1990 (quindi precedente alla stagione di Tangentopoli ed il conseguente crollo della Prima Repubblica) ci parla della pesante situazione delle carceri italiane in quegli anni, e denuncia come lo Stato fosse totalmente sottomesso a mafia, camorra e ‘ndrangheta. Ancora una volta il borghese che ha tradito la sua classe inveisce contro il Potere e gli apparati statali.
Del resto cosa aspettarci dal poeta che ci ha detto che bisogna fare davvero tanta strada “per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni?“.

[Foto: ondarock.it]

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