Con Storia di chi fugge e di chi resta, terzo volume della saga cominciata con L’Amica Geniale, Elena Ferrante si conferma una delle voci più intense della letteratura di questi anni.
Tra gli autori contemporanei Ferrante si distingue per “una schiettezza che difficilmente si potrà trovare in un amico” – afferma il critico americano James Wood, che l’ha recensita sul New Yorker.
Infatti Ferrante varca il confine dei pensieri inconfessabili. Si cala, come una speleologa, in fatti ed emozioni, registrandone i moventi. E li coglie in flagrante: nelle relazioni. D’altro canto la sua scrittura è nitida, priva di sperperi. Il racconto fluisce avvincente come un fiume in piena. C’è qualcosa che agita, “un cuore nudo e palpitante”, pieno di vita. Accade anche in Storia di chi fugge e di chi resta, terzo volume della saga cominciata con L’Amica Geniale.
Chi ha già letto i due romanzi precedenti, sa che la storia ruota intorno ad Elena, “Lenuccia”, e Lina, “Lila”, due amiche cresciute in un quartiere popolare di Napoli, avvinte in un legame simbiotico che non esclude rivalità e ferocia. Nel terzo volume le amiche sono adulte, e ognuna ha preso la sua strada: Lenuccia, che ha sgobbato sui libri, è una scrittrice ed abita a Firenze col marito, giovane professore universitario. Lila, dopo un matrimonio burrascoso e violento ha lasciato il marito e lavora in una squallida fabbrica di San Giovanni a Teduccio, nella periferia sud di Napoli. La storia, quindi, orbita intorno a due ambienti: quello colto e progressista di Milano e Firenze; quello sottoproletario del rione napoletano, arretrato e spinto ai confini della Storia, ma reattivo. Sullo sfondo di questo terzo volume, poi, ci sono gli anni Settanta, le esperienze di lotta operaia, il movimento delle donne, il subbuglio nelle università: desideri di trasformazione e speranze si mescolano al “disordine dei rapporti” confluendo nel magma collettivo. Elena e Lina ne sono travolte, ciascuna a suo modo, l’una come specchio capovolto dell’altra, impegnate entrambe in una parabola di riscatto.
Per la gioia dei lettori, in questo terzo sequel i fili si riallacciano. Riappaiono personaggi-chiave come Nino Sarratore, figlio del ferroviere-poeta del rione. Segretamente amato da Elena e diventato un intellettuale radicale dal fascino ambiguo, entrerà nell’intreccio a sorpresa provocando altri colpi di scena. Ma tornano anche la Galiani, ex professoressa di Elena, della quale la protagonista intercetta ora limiti e sofferenze, e sua figlia Nadia: figure di contorno, ma fondamentali per il mutamento di prospettiva negli anni della contestazione. E poi c’è l’universo popolare del “rione”: Michele Solara, imprenditore camorrista, che riesce a rubare le imprese altrui – e anche l’altrui energia. Gigliola, sua moglie e vittima, che in un momento di dolore si rivela lettrice acuta di Elena. Ma anche molti altri che, anche per poche righe, acquistano rilievo e respiro. Tra gli altri, Enzo, scolpito nel suo silenzio, che affianca Lila nella lotta per la dignità e la sopravvivenza.
Quella di Ferrante non è una Napoli oleografica o resa accattivante come sfondo di un noir: è piuttosto una dimensione antropologica in cui sopraffazione e subalternità convivono con affetti profondi e inscindibili. Ma è anche la matrice della scrittura della stessa Elena – personaggio del romanzo – e forse della scrittrice stessa – avvolta nel suo alone di sincerità e mistero. Nel “rione” sono incubati caos e violenza. E quando il disordine delle emozioni affiora, Elena si esprime “nel napoletano del rione”, sboccato e scomposto, a dispetto del suo sudato aplomb intellettuale. Quasi che la dimensione “oscura” delle origini possa in qualsiasi momento prendere il sopravvento, “imponendo le sue figure”: quelle che a Firenze sembrano “immagini sbiadite”, e che nel rione sono “in carne ed ossa”.
Ma gli opposti si attraggono e si fondono, sia nel mondo sociale che nel mondo interiore: memorabile il momento in cui Pietro, coltissimo marito progressista di Elena, “addestrato fin dall’infanzia a individuare regole nel caos”, viene preso da uno “sgovernato movimento interno” e si comporta in modo abietto, peggiore di un nativo del rione.
Esiste dunque un grado zero dei sentimenti? Un momento in cui l’aspetto si incrina, i contorni si perdono, o – con un termine caro alla Ferrante – la realtà si “smargina” rivelando un retroscena crudo? Se è così, Ferrante è brava a coglierlo a caldo e porgerlo, con naturalezza, al lettore. Infatti, narra con voce chiara. Infila parole con precisione millimetrica. Ci conduce nel turbine dei rapporti e della Storia a passo cadenzato, da romanzo popolare. Eppure penetra e infrange le nostre consuetudini mentali, aiutandoci a rompere il guscio delle censure, a chiarirci, per mezzo della sua voce, su quello che accade alle nostre vite. Sentimenti come l’antipatia per un figlio, la ferocia, l’amore/odio che governano i rapporti più profondi, vengono stanati e adagiati nel flusso affabile e illuminato del suo stile.
Se c’è un modo per parlare di cose oscure in modo cristallino, Elena Ferrante l’ha trovato. E’ forse questo il segreto del suo inarrestabile successo?
Alla fine, anche Storia di chi fugge e di chi resta ci lascia in attesa. Ci sarà un seguito? Ferrante, a quanto pare, porta dipendenza.
Elena Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, Roma, edizioni E/O, 384 pp., euro 19,50.