Come raccontare la Storia ai ragazzi? Miriam Rebhun, autrice di Ho inciampato e non mi sono fatta male, ha trovato una chiave. A partire dalla sua storia familiare, attraversata dall’Olocausto. E non solo.
Miriam è un nome ebraico. Rebhun è un cognome tedesco. Miriam Rebhun è una signora napoletana molto sorridente. L’ho conosciuta ad un incontro-conferenza che ha tenuto nella mia scuola. Per parlare della sua storia familiare.
Nell’aula magna, circa 300 studenti tra i 16 e i 18 anni. Miriam comincia proprio dal suo nome. In esso corre un filo lunghissimo che attraversa la Germania, per arrivare in Palestina e, infine, a Napoli. La lama che taglia il destino familiare è quella dello sterminio degli ebrei progettato da Hitler. Ma non solo. Anche il sogno della Terra Promessa. E il cammino – anche questo insanguinato – che conduce alla formazione dello stato di Israele.
Chi si aspetterebbe che tante guerre, tanto sangue, scorrono nelle vene di una signora così affabile?
Queste guerre, questo sangue, appartengono a tutti noi. I tanti morti sono mancati a noi, a tutti. Le vittime hanno i loro lamenti. Ma i carnefici hanno i loro sensi di colpa. E questo per molte generazioni successive, spiega Miriam. Che è anche una insegnante di storia. E la cui voce tenace si arrampica attraverso gli sguardi un po’ appannati dei ragazzi. Che di memoria non vogliono saperne. E di Olocausto men che meno.
Siamo alla quarta generazione dopo il più grande massacro su scala industriale di tutti i tempi. Un punto di non ritorno nel cuore dell’Europa “civile”. I sedicenni di una scuola professionale di Napoli, nel 2014, vogliono storie belle. Magari un po’ drammatiche. Ma possibilmente a colori.
Invece la signora Miriam proietta sullo schermo dell’aula magna foto in bianco e nero. Sono quelle che lei ha ritrovato scavando nei ricordi di famiglia e negli archivi. Il suo bisogno di comprendere meglio le radici è emerso in età matura, dopo una vita tutto sommato serena. La famiglia della madre, ebrea napoletana, non ha – miracolosamente – avuto perdite. E’ il ramo paterno, quello inciso nel suo cognome, ad essere stato rimosso. Qui le morti sono state copiose. E tragiche.
La prima foto ritrae due giovani di 18 anni, in un bel completo dell’epoca con pantaloni larghi e giacca. Berlino, 1936: questi sono mio padre e il suo gemello, ebrei tedeschi: ho trovato la foto in una cassetta custodita da mia madre, spiega Miriam. Di lì a poco i due gemelli, per fuggire alle persecuzioni, si imbarcheranno alla volta della Palestina. Seguono altre foto, fine anni Trenta: vita nei Kibbutz ebraici, dintorni di Haifa. Giovani uomini e donne con maniche di camicia rimboccate. Un sole luminoso. E, ancora, i due gemelli. Uomini fatti: ma il loro aspetto vigoroso contrasta con le espressioni corrucciate. Arrivavano notizie dei loro genitori, rimasti a Berlino : mio nonno era stato rinchiuso e ucciso in un ospedale psichiatrico, la nonna deportata.
La storia procede. E’ il 1943. Il padre di Miriam è con il Palestine Regiment di stanza a Napoli insieme alle forze alleate. Napoli è uno sfacelo. Ma i tedeschi sono stati cacciati durante le Quattro Giornate. E’ qui che il soldato Rebhun incontra la madre di Miriam. Si innamora. La sposa. Con lei si trasferisce in Palestina. Scorrono ancora foto. Una ritrae i due giovani coniugi con una bimba tra le braccia. Questa sono io, dice Miriam, tradendo una impercettibile commozione. La platea di alunni e alunne mormora sottovoce – sono stanchi di sentire vecchie storie? O ne avvertono la vicinanza?
Miriam continua a proiettare l’album sullo schermo. I due gemelli tengono sotto braccio una ragazza sorridente. E’ la moglie dello zio, spiega Miriam. La foto, come dice Roland Barthes, è il requiem ad un istante. Ma questa lo è più di altre. Perché si avverte il guizzare di quel sorriso, fresco di gioventù. E c’è un brusco cambiamento: qualche mese dopo questa foto mio padre morirà, colpito da un cecchino arabo. Lo seguirà il fratello, tre mesi dopo. Siamo all’inizio del 1948. Di lì a poco verrà fondato lo Stato di Israele. Ma a questo punto il destino di Miriam cambia rotta. Si dirige verso Napoli. Presso la famiglia della giovane madre vedova.
Che il loro ricordo sia per benedizione è la frase yiddish che si pronununcia nel nominare un morto. Benedizione. Sollievo. Lo stesso che Miriam dice essere sopraggiunto dopo le sue ricerche. Non a caso il suo libro si intitola Ho inciampato e non mi sono fatta male (ed.L’Ancora del Mediterraneo). L’inciampo nelle memorie di famiglia ha portato alla luce, sì, eventi tragici. Ma ha provocato guarigione. Non ho ricordi di mio nonno, ma ora, almeno ne ho memoria, spiega, nel suo tono conviviale, ai ragazzi – che hanno seguito la conferenza in rispettoso silenzio.
Non era scontato. Ricordi, memoria: sono parole che ai ragazzi risultano “pesanti”. Ma l’appetito di storie è più forte. Il racconto di Miriam ha perforato i loro sbadigli. In seguito mi hanno chiesto altri particolari: prof, ha comprato il libro? Che fine ha fatto il cugino della signora Miriam? Non si accorgono – per fortuna? – che chiedendo dei prequel e dei sequel, stanno facendo domande sulla Storia. Della Shoà. D”Europa. Nostra.
A quanto pare la strada che la Rebhun ha scelto è quella giusta. La storia è fatta di storie, afferma. E lei? Una canta-storie? Che per tableaux mostra foto di persone vere. Per parlare di Shoah. Ma soprattutto per cercare di comprendere lo spazio tra i morti e i vivi. E il loro reciproco coinvolgimento. La Rebuhn questa strada la percorre con tenacia, nel solco della tradizione ebraica. Ossia nella certezza che onorare la memoria di chi è stato travolto dalla Storia ci rende più vivi.
Il suo sorriso, in questa luce, appare ancora più chiaro. Sono morti davvero solo coloro che sono stati dimenticati, recita un proverbio ebraico. In qualche modo Miriam ha riportato in vita i suoi familiari dimenticati. Ma c’è ancora qualcos’altro che la professoressa Rebhun, intende sottolineare: Nonostante il gran dispiegamento di forze da parte dei nazisti, gli ebrei ci sono ancora. Così anche zingari e omosessuali. Tutto sommato, quello dello sterminio è un piano fallito. Difficile obiettare, se a dirlo è qualcuno che appartiene alla comunità della quale sono stati uccisi più membri in tutta la storia d’Occidente.
Informazioni utili
L’incontro di cui parlo si è tenuto all’Isis D’ESte-Caracciolo di Napoli il 10 febbraio 2014, organizzato da Patrizia Mascolini, docente di religione e membro della Comunità di S.Egidio. Miriam Rebhun vive e lavora a Napoli. Il suo lavoro nelle scuole, ma anche in altre istituzioni è decennale e instancabile. Chi volesse contattarla per un incontro o conferenza può trovarla su FB o scrivere a: miriamreb@alice.it
Il titolo del romanzo della Rebuhn prende spunto da Stolperstein , “pietra di inciampo”, progetto dell’artista tedesco Gunter Demnig: La Stolperstein è una pietra del selciato foderata in bronzo e recante il giorno di nascita e morte di singole vittime della Shoà. In Europa, attualmente, Demnig ha installato 40.000 pietre di inciampo. Ciascuna davanti alla porta di casa dalla quale la persona rievocata è uscita per l’ultima volta. Un vero e proprio inciampo nella memoria.