In libreria, dopo quaranta anni, Malacqua, lungo racconto visionario di Nicola Pugliese. In esso Napoli diventa cifra di un “mood” esistenziale. Un piccolo capolavoro.
Torna in libreria Malacqua, il romanzo-cult dello scrittore e giornalista napoletano Nicola Pugliese, pubblicato nel 1977 da Einaudi. A riproporlo è l’editore Tullio Pironti. Più che un romanzo, Malacqua è un lunghissimo racconto, che si legge d’un fiato. Non un thriller, non intrattenimento. Piuttosto uno di quei rari – ormai – casi di letteratura in cui linguaggio e contenuto sono avviluppati in una materia avvincente che smuove la visione del lettore. C’è da chiedersi come mai né l’autore – scomparso nel 2012 – né l’editore abbiano pensato a riproporne una pubblicazione dopo quel lontano 1977, nonostante il romanzo continuasse a ricevere un plauso silenzioso da parte di un pubblico fedele – e nonostante l’appoggio del suo autorevole editor, Italo Calvino, che ne aveva voluto fortemente la pubblicazione.
La risposta è soprattutto nell’atteggiamento schivo e disilluso dello stesso Pugliese, che si evidenzia nell’ intervista confluita nel documentario Tutto il resto è Malacqua a cura del giornalista Giuseppe Pesce e dello scomparso Giuseppe D’Avanzo. Con implacabile understatement Pugliese afferma: “Napoli non è mai entrata nella Storia. Il recinto di Napoli è l’arte. Lì possiamo fare tante ‘cosine’. Ma solo in quei margini” . Scetticismo politico, ma anche esistenziale, quello di Pugliese: ma non privo di un senso etico appassionato. Non-Storia, Responsabilità, Destino sono le tematiche che confluiscono nel romanzo facendolo rientrare a pieno titolo, come afferma lo stesso Giuseppe Pesce nella sua monografia su Pugliese, tra i capolavori del ‘900.
Malacqua, come suggerisce il sottotitolo, narra “quattro giorni di pioggia nella città di Napoli in attesa che si verifichi un accadimento straordinario”. Sono tre i protagonisti principali del libro: la pioggia, che cade intermittente, come un sipario liquido; la città di Napoli, su cui la pioggia cade; i frammenti di storie e flussi di coscienza che emergono dalla città alluvionata. Tra queste, quella del giornalista Andreoli Carlo, alter ego dell’autore, che segue gli eventi da vicino, cercando il punto di vista per registrarne la portata.
Spunto del libro, come spiega lo stesso autore, è un fatto di cronaca: nel settembre del ’69, in seguito a un acquazzone, si aprì una voragine a via Aniello Falcone, nella quale trovò la morte un passante. Ma dalla cronaca la scrittura di Pugliese balza verso una dimensione metaforica. In essa la pioggia ha la consistenza di una “presenza grigia” che contribuisce a “scardinare i pensieri, a confondere gli occhi”. Quasi una entità soprannaturale. Durante i quattro giorni di pioggia, infatti, si verificano accadimenti straordinari: gemiti altissimi, collettivi, provenienti dal Maschio Angioino si rivelano essere generati da una bambola, seduta sotto uno scranno del Consiglio Comunale. Il mare si alza, con flemma quasi garbata, andando a ghermire case e bassi. Le monete da cinque lire cominciano a cantare. A dominare su tutto è un senso di sospensione e di attesa misto a un presagio di sovvertimento, che rifluisce, nella scrittura, in un linguaggio volutamente pieno di ripetizioni, ritorni ritmici, immagini palpabili: “sulle mani adesso è scesa a premere la provvisorietà di un sinistro presagio inconcludente che non si spezza nel fulmine improvviso, che non si spezza, e che trascina tuttavia decorazioni rutilanti giù nel liquame dell’ansia”
Il “sinistro presagio inconcludente” è lo stato d’animo, il “mood” che innerva la scrittura del libro facendo scaturire visioni che si amplificano, mantenendo un tono contenuto, talvolta simile a quello di un verbale di polizia. Precarietà, crolli, frane, dolore, attesa e paralisi politica: il cattivo umore di Napoli si eleva a uno stato di sospensione tout court cristallizzato con esattezza categorica. Infatti in Malacqua la città non è circoscritta alla sua autoreferenziale storicità ma diviene una metafora del disagio, come anche dello splendore, spesso dolente, che trasuda da ogni singola vita. Andreoli Carlo, nel suo continuo interrogarsi sul “significato ultimo” della pioggia ma anche della sua vita, è un uomo universalmente “in bilico”. Ma anche gli altri personaggi che per qualche pagina prendono rilievo, hanno tratti indelebili e definitivi: eterni nella loro trivialità e nella loro passione. Siamo nel solco tracciato da Beckett e Kafka, autori che non temono l’insistenza ossessiva su due o tre domande, ripetute attraverso lo scavo di immagini dentro altre immagini. Un gioco di “caduta” che solo la lingua letteraria permette.
In Malacqua emerge, come afferma il critico Filippo La Porta, l’”anima nera e piovosa di Napoli”. Tuttavia, Pugliese non ama il dramma. Nella sua scrittura l‘ironia tiene a bada persino il delirio apocalittico, lasciando che si sveli per quello che è: sintomo del nostro smarrimento di fronte agli eventi. Nel piano-sequenza finale, Andreoli Carlo si sbarba e mentre si sbarba ripensa la sua vita. Il flusso di coscienza si amplifica accogliendo tutti i detriti della memoria e del presente. E infine, l’offuscamento lascia spazio a una schiarita. “perché la vita non è dentro i pensieri tortuosi, nella pioggia che scende, nelle strisce che sbarrano il cielo, la vita è questo sole caldo di ottobre che viene a disegnare tenerezze su ogni foglia“. L’altro “mood” napoletano, quello descritto da da Raffaele La Capria come “bella giornata”, prende il sopravvento? Non si direbbe. Piuttosto, in Malacqua, vince uno scetticismo radicale, ma lirico: gli eventi scolorano, il tempo divora ogni cosa, il senso resta inesplicabile, e niente resta, se non “un’eco flebile” . Tuttavia “nell’iride dischiusa a verificare la luce” possiamo avere una visione. E perché rinunciarci visto che è una di quelle “cosine”, ai margini della Storia, concesse a noi Napoletani e non?
Come tutti i libri belli, Malacqua ci lascia il dono di una visione.
Meglio cercarlo, in libreria, prima che – non si sa mai – scompaia di nuovo.