Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, in particolar modo in relazione alla sua attività di drammaturgo e di regista/attore, credo che la scrittura di Arnolfo Petri abbia un qualcosa di estremamente potente che risiede in una certa fisicità della parola: una parola che si percepisce, molte volta, in tutta la sua violenza sonoro e tematica, sia che si tratti di napoletano che di italiano.
Questo elemento, che risulta essere una delle note chiave di Petri, appare ben evidente anche dal suo ultimo volume poetico, Mai più uomini in croce, pubblicato per Homo Scrivens. Artista poliedrico, Petri, oltre alla drammaturgia e alla narrativa, ha infatti dedicato parte della sua attività letteraria alla poesia, pubblicando le raccolte Sono nato nel Sessantuno (Photocity), Graffi del cuore (Guida) e, per l’appunto, Mai più uomini in croce.
Ciò che colpisce nelle poesie di Mai più uomini in croce è per l’appunto il linguaggio, che guarda al contempo all’intimità dell’individuo ed esternalizza il suo dramma. Leggiamo nella presentazione che Mai più uomini in croce è una “discesa crudele nelle ferite dell’Uomo. Cronaca disincantata di crocefissioni metaforiche, stupri delle idee, assassinio della parola”. E tutto questo si riversa in versi fatti di un linguaggio ricco e potente, onirico e mistico, ma allo stesso tempo “sporco”, legato alla realtà, al mondo, alla carne nella sua fisicità. Tanto da risultare a tratti emotivamente ed emozionalmente insopportabili per quello che suscitano nel lettore. Elemento davvero positivo per la vera poesia che scava nei meandri dell’uomo.
[Photo cover: Pagina Facebook dell’autore]