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“Amare il prossimo come sé stessi”. I preti e i sacerdoti nel primo libro di Ilaria Urbani

Lo so, è pura casualità. Ma questo libro esce proprio all’indomani della scomparsa di Don Andrea Gallo e dopo la piccola frattura che Papa Francesco opera nei confronti del passato della Chiesa Cattolica. Proprio nei giorni in cui la Chiesa Cattolica si trova nella spinosissima faccenda dello IOR, la banca vaticana e si parla di correnti interne al Clero, mi sono trovato a sfogliarlo. Un piccolo e agevole volume che ci parla della Chiesa meno conosciuta. Ovvero quella dei preti e dei sacerdoti di periferia e di frontiera che, in maniera silenziosa e sotterranea, si battono per il recupero di minori a rischio e in difesa dei deboli e degli emarginati. Una chiesa sempre presente nei quartieri periferici di Napoli dove spesso sono assenti biblioteche, cinema o qualsivoglia luogo di Cultura. Invece Ilaria Urbani, l’autrice, fa notare che a far da contraltare a questa mancanza è proprio la Chiesa. Il testo si chiama La buona novella. Storie di preti di frontiera ed è uscito pochi mesi fa per i tipi di Guida. Nel libro vi sono narrate le vite e le esperienze di tredici preti che meritano, per le loro opere e per il loro forte amore per il prossimo, di essere menzionati tutti: Don Franco Esposito, Don Aniello Manganiello, Padre Antonio Bonato, Padre Carlo De Angelis, Padre Fabrizio Valletti, Don Gaetano Romano, Padre Antonio Loffredo, Don Félix Ngolo, Don Vittorio Siciliani, Don Tonino Palmese, Don Mario Ziello, Padre Alex Zanotelli. Le loro vite sono narrate con grande semplicità e con periodi brevi e un linguaggio chiaro: è un piacere leggere questo testo al di là del suo interessantissimo contenuto. La stessa semplicità che contraddistingue questi tredici nobilissime figure. E Ilaria Urbani forse ha capito che raccontare storie per un giornalista deve essere come comportarsi e agire da missionario. Come nota anche Roberto Saviano nella prefazione del libro quando scrive : da quando  (io e Ilaria n.d.r.) abbiamo capito che scrivere vuol dire raccontare ciò che ti si agita attorno, e ciò che ti ferisce dentro. Che scrivere, in alcuni territori non può che significare denunciare. E denunciare non vuol dire odiare la propria terra, diffamarla, calunniarla. Raccontare significa invece amarla più di ogni altra cosa. Più di se stessi, a volte. Raccontarla con ossessione, come un imperativo”. E l’autrice fa di un imperativo una scelta di vita regalandoci le esperienze belle e al contempo tragiche di questi grandi uomini, nascosti nelle periferie di cui (ahimé) quasi nessuno ci parla.

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