Fra i protagonisti una coppia di sposini di Ariano Irpino
di Paolo Speranza*
Quella “Tarantella” non s’aveva più da fare, né allora né mai. E l’anatema – pronunciato non al tempo di don Rodrigo, bensì della Repubblica italiana – resiste, come la maledizione anti-Benfica dell’allenatore ungherese Bela Guttmann, da più di cinquant’anni. Per la precisione dal 1962: l’anno in cui la squadra portoghese perse la prima di otto finali europee (l’ultima, pochi giorni fa, a Torino) e la Procura della Repubblica di Napoli intervenne in corso d’opera per decretare la sospensione della commedia Tarantella con un piede solo, andata in scena in prima (e ultima…) nazionale il 6 dicembre al Teatro Mercadante (foto cover: teatrostabiledinapoli.it).
Uno spettacolo teatrale interrotto alla fine del primo atto, per l’intervento della magistratura, e mai più andato in scena, è un caso unico nella storia dell’Italia democratica. A detenere questo singolare e poco invidiabile record è una commedia leggera, scritta da Gigi Lunari, drammaturgo e direttore dell’ufficio studi del Piccolo Teatro di Milano, all’epoca 28enne, e diretta da Andrea Camilleri, anch’egli allora giovane regista e funzionario Rai. Per entrambi scattò la denuncia per “spettacolo osceno” e “vilipendio alle forze di polizia”. Un’accusa non da poco, a quel tempo: per ognuno dei due reati, puntualizzava “La Stampa” di Torino, “è prevista, oltre a quelle minori, una pena fino a tre anni”.
UNA “CANDIDA SATIRA DI COSTUME”
Solo nel gennaio del ’63, con la pubblicazione su “Teatro nuovo”, bimestrale dello spettacolo diretto da Ghigo De Chiara, Maurizio Scaparro e Lamberto Trezzini, fu possibile conoscere il testo integrale della commedia che tanta sorpresa e scandalo aveva suscitato un mese prima. E ai critici teatrali più accorti fu subito evidente che si era in presenza di un intervento censorio del tutto immotivato. Ruggero Jacobbi, sull’“Avanti!” del 15 marzo 1963, definì la commedia “un’opera addirittura candida in un teatro che ha lasciato passare tranquillamente l’ultimo Tennessee Williams”, commentando: “Nulla di morboso, di scandalistico, di voluto, di innaturale è nella schietta e sanissima commedia di Lunari, la quale mostra in modo più favoloso che naturalistico, più allegorico che cronistico, una dolente realtà italiana, alla quale sa guardare con sdegno ma anche con sorriso e con ferma speranza”.
Lo stesso Camilleri (foto: hoepli.it), intervenendo nel dibattito promosso da “Teatro nuovo”, affermava che la commedia, lungi dall’essere oscena, “mi pareva puntare più sull’ironica ed estrosa satira di costume (che a tratti volgeva verso toni drammatici) che non sulla rappresentazione realistica di un milieu napoletano da assumere come oggetto di critica”. Ma il vero scandalo, come intuì lucidamente Lunari su “Teatro nuovo”, non andava ricercato nel linguaggio, che escludeva rigorosamente “frasi ed espressioni men che consuete sulle labbra di un qualsiasi studente liceale”, bensì nel “carattere preciso e diretto della polemica e – diciamo – della denuncia”, particolarmente esplicita nella lunga battuta di uno dei personaggi principali, Cannuccia, alla fine del primo tempo, “che è quella cui va in gran parte – affermava con convinzione Lunari – la colpa del putiferio”.
GLI SPOSI DI ARIANO E LA “PROPOSTA INDECENTE”
Che cosa conteneva di tanto scandaloso il monologo di Cannuccia, piccolo e pittoresco fuorilegge napoletano al servizio di don Antonio, il boss italoamericano che nell’abbigliamento, nel soprannome (Lucky Strike) e nei rari cenni biografici ricorda il Joe Adonis rimpatriato in Italia qualche anno prima?
Si tratta di una lunga e astuta “tirata”, con risvolti pseudosociali, sul valore dei soldi, unica vera religione degli italiani, finalizzata a convincere un giovane e poverissimo sposo – appena giunto a Napoli in luna di miele – a “cedere” la moglie, nella prima notte di nozze, ad un uomo facoltoso (“Mica che sia un porco, eh? Un buongustaio, un collezionista”, lo presenta il viscido Cannuccia) in cambio della somma – a quei tempi ragguardevole – di 500mila lire. Una “proposta indecente” in salsa campana, trent’anni prima dell’omonimo film di successo con Robert Redford e Demi Moore.
Per quanto trattato con ironia e leggerezza, l’argomento era troppo “forte” per una parte del pubblico, benché ispirato ad una vicenda realmente accaduta qualche anno prima: intorno alla metà degli anni Cinquanta, considerando che Lunari aveva scritto la commedia nel ’59. Sulla veridicità dell’incredibile fatto di cronaca non manifestano dubbi i cronisti dell’epoca, dal celebre critico del “Roma” Sergio Lori (futura colonna di “Cinemasud” e del “Laceno d’oro”) ai giornalisti del “Mattino”, de “La Stampa” e della prestigiosa rivista “Il Ponte”, sulla quale, nel secondo numero del ’63, si legge: “La commedia narra di due sposi in viaggio di nozze che giungono da Ariano Irpino e prendono alloggio in un alberghetto malfamato. Lo sposo consente per mezzo milione che, quella prima notte, un altro uomo prenda il suo posto vicino alla moglie. Egli non riscuote però il prezzo dell’indegno mercato in quanto il dongiovanni, a cose fatte, se la squaglia (il fattaccio accadde realmente anni or sono, solo che il pagamento ci fu, ma con banconote false)”.
Non si trattava del classico e frequente raggiro dei “magliari” di Napoli ai danni dei “cafoni” dell’Irpinia, del Sannio o del Cilento, ma di qualcosa di più inverosimile e grave, che l’autore di Tarantella con un piede solo riprende consapevolmente (“Dalla campagna, vicino a Ariano Irpino”, è la provenienza dichiarata dal personaggio dello sposo), attribuendo il comportamento degli sposini della provincia di Avellino non alla “decadenza dei costumi” quanto alla miseria, il vero “scandalo” ancora tanto diffuso nell’Italia di mezzo secolo fa.
Pur trattandosi di una vicenda drammatica e amara, la “proposta indecente” viene rappresentata da Lunari e Camilleri con un indubbio effetto comico, esaltato dall’interpretazione (nei panni dello sposo) di Carlo Croccolo, uno degli attori più popolari all’epoca in Italia, indimenticabile “spalla” di Totò in molti film e particolarmente a suo agio nei ruoli di personaggi succubi, rustici e un po’ tonti.
GIÙ IL SIPARIO!
Qualche minuto dopo il monologo di Cannuccia (interpretato dal bravo caratterista Armando Bandini), calato il sipario sul primo atto, nel Mercadante si scatenò l’inferno. Ecco la cronaca del quotidiano di Torino: “Terminato il primo tempo dello spettacolo, esplodevano i dissensi. In un palco vi erano anche due alti magistrati, il primo presidente della Corte d’Appello Domenico Zeuli e il procuratore della Repubblica Enrico Gatta. Persino il presidente Zeuli – come è stato pubblicato – esprimeva vigorosamente il suo dissenso. I commenti pro o contro assumevano un tono acceso, senza però che si giungesse ad incidenti tali da giustificare la chiusura per motivi d’ordine pubblico. Ciò nonostante nell’intervallo un funzionario di Pubblica Sicurezza, il commissario Giovanni Cirino, si è recato dal delegato alla presidenza del Teatro Stabile, ordinandogli di far sospendere lo spettacolo”.
Perché tanto sdegno da parte dell’autorità giudiziaria?
Certo non per protesta contro il danno di immagine dei contadini dell’Appennino meridionale, indicati fin dai tempi di Augusto come modello di operosa virtù. Una prima risposta è nei reportage dell’epoca: “Nel lavoro appaiono di continuo dei poliziotti (falsi poliziotti, come si saprà alla fine della commedia) che, trascurando ogni loro dovere e consumando lautissime imbandigioni, concorrono alle fortune economiche dell’azienda, clandestina ma non troppo, impiantata fra via e albergo”. In altre parole, i poliziotti convivono con le giovani prostitute del quartiere e chiudono un occhio, anzi entrambi, sui loschi traffici dei “protettori” e della fauna di piccola malavita locale. A loro volta, le “lucciole” sono rappresentate più candide e timorate di Dio dei “signori” e dei rappresentanti delle “autorità”. Nè erano mancate, qua e là, battute gustose sui nostalgici dei Savoia, sullo stesso (ex) re Umberto, sul potente armatore ed ex sindaco monarchico di Napoli Achille Lauro. E pensare che i “benpensanti” (scusate il bisticcio di parole) non conoscevano alcune situazioni e battute del secondo tempo, con gli sposini che accettano la “proposta indecente” e, soprattutto, con l’entrata in scena di un cinico prete, don Fiorenzo, che va a riscuotere dalla maitresse un congruo obolo per la parrocchia, e alla prostituta Giorgina rivela senza peli sulla lingua: “Ragazza mia, se non ci foste voi ci sarebbe un’altra al vostro posto. Io lo so come va il mondo. I soldi che mi date sono buoni come gli altri”.
L’episodio oscurantista di Napoli suscitò ovviamente una lunga scia di polemiche e interventi sulla stampa, rinnovando il serrato dibattito sulla censura preventiva che in Italia, peraltro, era stata appena abolita con la legge n.161 del 21 aprile 1962. Da una parte gli artisti, gli scrittori e i pochi giudici progressisti, dall’altra i pasdaràn clericali e i “benpensanti” che – con l’avallo e spesso la guida della magistratura, soprattutto a Milano – si distinguevano in quegli anni per le violente proteste contro capolavori del cinema come Rocco e i suoi fratelli, di Visconti, e La dolce vita di Fellini, a teatro contro L’Arialda di Testori e per la letteratura contro Pasolini.
ALLE ORIGINI DI MONTALBANO
Quale fu, in quel frangente, la reazione di Andrea Camilleri?
Il suo, attestano le cronache, fu un atteggiamento di estrema dignità e fermezza: “Lo stesso è avvenuto con il regista. Egli è stato anche invitato ad una soluzione di compromesso – da lui sdegnosamente respinta – nel senso di affacciarsi al proscenio e dire agli spettatori che per “ragioni tecniche” non si poteva continuare la rappresentazione”, si legge sul “Ponte” di Calamandrei. E in una recente intervista pubblicata sul web, il regista e scrittore rievoca con dovizia di particolari il caso della “Tarantella” censurata: “Un mese prima era stata abolita la censura, per cui si respirava una maggiore libertà artistica, ma il testo era rischioso per altri aspetti in quanto parlava di quattro poliziotti corrotti, sebbene nel finale si riscattassero appieno. Così mandai il copione all’allora questore di Napoli che lo lesse, capì e conferì la sua approvazione, dando ordine al commissario di pubblica sicurezza che doveva svolgere il suo turno di sorveglianza in sala di non interrompere lo spettacolo. Ma la sera della prima venne un procuratore della Repubblica che a metà spettacolo si mise ad urlare allo scandalo e il commissario della polizia fu costretto a chiamare la Celere. Fui condannato per vilipendio alle Forze Armate – perché allora la polizia era ancora militarizzata – ma il questore intercedette per me spiegando in tribunale il finale dell’opera. Così fui assolto”.
Quella lontana e isolata vicenda, tuttavia, ha avuto conseguenze imprevedibili e decisive sulla futura carriera di Camilleri. Il personaggio del commissario Montalbano (foto: ilmessaggero.it), rivela nell’intervista citata lo scrittore, è figlio di quell’evento: “Confesso che i miei libri sono un po’ una sorta di risarcimento per un episodio divertente che risale al 1962, quando fui chiamato alla regia dello spettacolo teatrale Tarantella su un piede solo. (…) Per riscattarmi da questo vecchio debito (con il questore, ndr) Montalbano mi è sembrato adatto, anche perché in lui ho concentrato tutte le qualità migliori di un siciliano: senso di lealtà e rispetto delle regole, amore della tradizione e, insieme, apertura verso gli altri“.
*Giornalista, scrittore, infaticabile ricercatore irpino, è direttore dello storico Quaderni di Cinemasud, periodico di cultura cinematografica fondato nel 1959.
[Già apparso sul quotidiano Ottopagine, riprodotto per gentile concessione dell’autore]