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Cultura, Musica

Pino Daniele. Quando una voce ti ascolta.

Pino Daniele ha saputo unire pubblico colto e popolare. Cosa della sua musica è diventato “noi stessi”?  Perché la sua perdita è un lutto collettivo così forte?

pino1A Piazza Plebiscito, la sera del funerale di Pino Daniele un ragazzo alto e grosso cantava e singhiozzava con le braccia penzoloni. Io pure piangevo. Senza vergogna. E intorno a noi molti altri.

La voce di Pino Daniele è una presenza di famiglia. La sua musica tesse da anni le melodie delle nostre giornate.  Ma cosa di lui è entrato così profondamente nelle nostre vite personali?

Il tono di Pino Daniele è per lo più  elegiaco. Parla del tempo e della bellezza,  ferma le impressioni delle persone anche viste di sfuggita,  trasmette quel movimento, nitido e sfocato, che la nostra memoria compie già nel momento presente. Elegia, consapevolezza del passare delle cose. Desiderio di afferrarne  l’essenza sotto forma di parole e note e ricordarle (vulesse arrubba’, senza ‘e me fa’ vere’ tutt’ ‘e facce ‘ra gente”).

Il tono elegiaco e la capacità di creare melodie su una struttura ritmica del tutto nuova hanno reso Pino poeta di tutti: giovani, vecchi, colti, ignoranti. La sua forza di compositore ha stampato per sempre, in noi, dei momenti, restituendocene la qualità, ma anche sollecitando l’esplorazione intima di essi. Tristezza e allegria, si alternano nelle sue canzoni con  sfumature  precise. C’è l’”appucundria” che si manifesta come una folata che fa “scuncicare il letto”.  C’è il “bisogno di allegria”; e c’è l’immaginare l’allegria che si manifesta nella narcosi vitale dei nostri affetti  (“putesse essere allero/cu mia figlia mbraccio/ ca me tocca a faccia/ e nun me fa guardà”). Nelle sue canzoni le sensazioni non vengono spiegate ma quasi indotte, ricreate e rivissute con accordi e parole. E noi, ascoltandole, le riconosciamo. Riconosciamo la “appucundria”, la saudade di “chi tene o mare”,  la sensualità, i gesti minuti dai quali scaturiscono felicità e presagi (“abbasta ‘na iurnata e sole e quaccheruno che te vena piglia’, abbasta na iurnata ‘e sole, pe pute’ canta’”).  E la pigrizia che ci fa rintanare nel tepore al riparo dalla storia (“quello che la gente dice/adesso non mi piace”). E ci riconosciamo anche nella rabbia, che dà la forza per staccarsi dal resto e cominciare qualcosa di nuovo: (“yes, I know my way, mo nun me fotte cchiu/ mo nun me fotte cchiu”).

La forza della canzone, e anche della sua riproducibilità, fa sì che quei momenti, quelle sensazioni, possano essere fermati, visti, nominati, cantati, rivissuti,  condivisi. Quasi come a dirigere il nostro sentire, educarlo.

 Nessun cantautore italiano o straniero ha saputo usare la tavolozza lirica come lui. La tradizione napoletana fa da sfondo a questa padronanza delle sfumature dell’animo. Ma Pino Daniele, nell’approcciare il sentimento non alza mai la voce, non dichiara, anzi, sottrae. E in quella sottrazione, che è l’operazione magistrale del suo timbro schivo, e delle sue armonie – tinte di “nero” e quindi mai ammiccanti  –  lui ci aiuta a sentire, a percepire.

 Pino Daniele ha educato al feeling almeno tre generazioni.  La forza di un poeta popolare come lui è  quella di trascinare, dare forma e parole all’esperienza, rendendola, appunto, umana. Attraverso Pino i sentimenti comuni hanno trovato note nuove e distinte.  E, cosa straordinaria, grazie al suo groove sono diventati condivisibili scorci di intimità che si sarebbero altrimenti accompagnati a paesaggi introversi. La sua musica ha, in qualche modo, reso estroversa l’introversione. O viceversa.

 Perché allora piangevamo, al suo funerale?  Per lo stupore. Non immaginavamo che lui fosse così presente.  In realtà, in tutti questi anni, avevamo sempre la sensazione che in qualche modo lui ci fosse. Certo, eravamo noi ad ascoltare la sua musica. Ma lui ci ascoltava.  Le nostre voci,  perse nella folla, sono scampoli sonori. Lui sapeva distinguerle, e rimandarcele, cantarcele, in scansioni di mood soprendenti. Ascoltandolo, ascoltavamo le nostre stesse voci,  ricomposte in un collage, in cui noi eravamo anche altri.  Il suo “ascolto” sapeva contenerci insieme e trasformarci in un racconto collettivo. Un sound collettivo. Una collettività che diventa reale e umana quando si trasforma in sound. Quindi in poesia sonora.

Per questo la sera del funerale, nel silenzio della piazza, c’erano tutti. La vicina di casa, il vecchio prof, il posteggiatore. La musica arrivata da Pino Daniele ci ha imparentati.

[Photo©Michela Iaccarino]

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