Nelle pagine di Io lo chiamo cinematografo, Francesco Rosi, fresco nonagenario maestro del cinema italiano ed internazionale recentemente insignito del Leone d’oro alla Carriera alla Mostra del Cinema di Venezia, si racconta con semplicità ed immediatezza d’espressione, forte dell’evidente empatia con il collega siciliano Giuseppe Tornatore (che gli fa da interlocutore), per una lettura godibilissima che fa scorrere rapidamente le 470 pagine del volume. Per il regista, ripercorrere la propria vita è ripercorrere insieme la storia del cinema italiano, che egli attraversa da più di 60 anni, da quando fece il suo personale «Centro Sperimentale di Cinematografia» alla corte di Luchino Visconti e del set di quell’autentico totem neorealista che fu La terra trema – irripetibile palestra di cinema e di vita – di cui il nostro fu assistente insieme a Franco Zeffirelli (fresco novantenne pure lui). Di lì in poi il racconto si dipana in un continuum memorialistico che si nutre di una concezione del cinema che si è andata progressivamente affievolendo fino ai nostri giorni: una grande famiglia, in cui si conoscevano tutti, attori, registi, produttori, tecnici, e si scambiavano consigli e considerazioni sulle rispettive opere, influenzandosi reciprocamente; un cinema dominato dal rispetto per i maestri riconosciuti ed in cui avvenivano ricambi generazionali formidabili, di cui al giorno d’oggi s’è perduto il segno. Esordiente quasi «per caso» (sostituì Goffredo Alessandrini sul set di Camicie rosse, 1952), dopo la parentesi della regia «tecnica» di Kean – Genio e sregolatezza (1956, unica regia cinematografica di Vittorio Gassmann), Rosi approdò a quello che considera il suo vero esordio, La Sfida (1957), prodotto dall’amico di una vita, Franco Cristaldi, con il quale per la prima volta si affacciava nel sottobosco criminale partenopeo, raccontando una sfida criminale per il controllo del settore ortofrutticolo locale. Era il primo capitolo di una trilogia ideale sul rapporto tra piccola e grande criminalità e poteri – una delle linee portanti di tutta la cinematografia di Rosi – proseguita con il frainteso I magliari (1958), con Alberto Sordi mattatore nel ruolo di un truffatore romano a capo di una scalcagnata banda di delinquentucoli napoletani nella Amburgo degli anni ’50, e culminata nel primo capolavoro targato Rosi, quel Salvatore Giuliano (1960) che, illuminato dalla luce prodigiosa del fido Gianni Di Venanzo e dall’approccio rivoluzionario di Rosi, diverrà una pietra miliare del film-inchiesta italiano, di fatto messo in formula dal cineasta partenopeo. Ma non si vuole qui ripercorrere la cinematografia di Rosi: si vuole solo ribadire l’influenza decisiva del suo cinema sullo sguardo di alcuni futuri cineasti (oltre a Tornatore, si pensi a Sorrentino), non solo italiani, grazie alla lezione imperitura di un cinema profondamente etico, dominato da un’asciuttezza di stile, da un controllo sulle scelte estetiche, una misura del racconto che sono anzitutto il risultato di una profonda limpidezza di sguardo, della fiducia nella possibilità dell’immagine, non di svelare tutti i risvolti – spesso inafferrabili – del «mistero» (specie nei meccanismi che utilizza il potere, qualsiasi potere, per autoconservarsi), ma di sgombrare l’orizzonte della verità dai suoi troppi falsi simulacri, in cui ci si imbatte spesso, ricercandola. È questo il senso più alto del cinema più squisitamente politico di Francesco Rosi.
Lunga vita al Maestro!
Francesco Rosi, Io lo chiamo cinematografo – Conversazione con Giuseppe Tornatore, Mondadori (Strade Blu), 470 pp., € 18.