A proposito di «Effetto Napoli», vale proprio la pena di chiedersi: che effetto ha fatto e continua a fare Napoli a quegli autori di cinema che l’hanno raccontata negli ultimi due decenni? Soprattutto a quelli che – senza nulla togliere agli altri – sono considerati i più importanti tra i registi «indigeni» partenopei, ossia Mario Martone, Antonio Capuano e Pappi Corsicato? La questione è piuttosto complessa, come complessa è l’opera dei cineasti succitati. Prova a rispondere, e lo fa con ricchezza di argomentazioni e rigore di metodo, un recente volume di Roberta Tabanelli (docente alla University of Columbia-Missouri), «I “pori” di Napoli. Il cinema di Mario Martone, Antonio Capuano e Pappi Corsicato» (pp.192, € 18.00), edito dalla Angelo Longo di Ravenna.
Partendo dalla celebre definizione di Benjamin di Napoli come «città porosa», che tutto assorbe e tutto restituisce trasformato, deformato, l’autrice traccia un profilo molto dettagliato dei tre cineasti in oggetto, curiosamente accomunati dall’aver esordito negli stessi anni (tra il 1991 e il 1993) e dalla precisa volontà di ribellarsi agli stereotipi rappresentativi di Napoli, rovesciandoli spesso in maniera grottesca (specie Corsicato); ma se pure presentano necessariamente dei punti in comune, i tre registi hanno sempre rifiutato per le loro opere l’etichetta critica di “nuovo cinema napoletano”, sorto sugli entusiasmi del “Rinascimento” bassoliniano (poi rivelatosi più vicino ad una sorta di Nuovo Medioevo), rivendicando l’originalità delle proprio scelte individuali e l’irriducibilità di queste ultime alle esigenze critiche di accorpamento e semplificazione (non si dimentichi tuttavia che i tre registi parteciparono ad un emblematico film collettivo del 1996, “I Vesuviani”, in cui, non a caso, emergono piuttosto le loro divergenze stilistiche che i punti di contatto tra le poetiche). Roberta Tabanelli ripercorre con passione e precisione le cronologie artistiche di Martone, Capuano e Corsicato, soffermandosi sui loro trascorsi pre-cinematografici (il teatro per Martone, del resto mai abbandonato; la scenografia per Capuano; danza e coreografia per Corsicato), su quella specie di “maledizione” che li perseguita (ribadita anche nella bella prefazione di Fulvia Caprara), quella di essere tacciati sempre e solo di fare film “su Napoli” solo perché ambientati nella Capitale del Sud, e mai “su Napoli come specchio della Nazione”.
Ma la città “imprigiona” sempre i suoi artisti, li condiziona pesantemente in ogni caso: ciò che in ultima analisi traspare dalle opere dei registi esaminati è la sostanziale “inafferrabilità” di Napoli, città che è mille altre insieme, sintesi e commistione di alto e basso, nobile e triviale, splendido e sordido, solare e orrido, “mistero” già topografico con i suoi dedali di vicoli e viuzze che digradano verso il mare, unica via di fuga, sotto l’occhio apparentemente cieco del Grande Dormiente, il Vesuvio. Titoli imprescindibili del cinema italiano contemporaneo come “Morte di un matematico napoletano”, “L’amore molesto”, “Teatro di Guerra” (Martone), “Vito e Gli altri”, “Pianese Nunzio 14 anni a maggio”, “Polvere di Napoli” (Capuano), “Aurora”, “I buchi neri”, “Il seme della discordia” (Corsicato) testimoniano della grande vitalità di Napoli, città squilibrata ma vitale, e della sostanziale “inclassificabilità” dei suoi maggiori esegeti filmici, della loro difficoltà di assimilazione ad una “corrente”, un “filone”, una “scuola”.