«La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti i libri!».
Stranamente (ma sarà poi così strano?) ci risale in mente questo celebre verso di Mallarmé mentre ci accingiamo a vergare poche inutili righe in ricordo (Lui avrebbe preferito sicuramente «in oblio») di Carmelo Pompilio Realino Antonio Bene la cui vicenda terrena ebbe inizio in terra salentina il 1° settembre 1937 (stesso giorno, ma di 15 anni dopo, del finto maestro e finto nemico di una vita, Vittorio Gassmann) e fine nella Capitale esattamente 10 anni fa, il 16 marzo 2002.
Cosa dire? Ma soprattutto cosa non dire, sul più grande genio innovatore del teatro del ‘900 (ma è dire nulla), sul provocatore affilato e feroce, il demolitore della (in)cultura nazionale (ma è dire poco), colui che ha ridefinito i canoni dell’arte scenica per molte generazioni a venire, a partire dal titanico lavoro sulla voce e sulla «macchina attoriale» (ma ricordiamolo sottovoce, perché l’interessato aborriva essere considerato un maestro), sulla sprezzante considerazione che ha sempre avuto di sé, dell’uomo e dell’umanità in generale («Non siete voi che mi cacciate: sono io che vi condanno a rimanere!», ha dettato per il suo epitaffio)?
Ma non vorremmo davvero finire col fare l’elogio di Carmelo Bene, attirandoci i suoi anatemi iperuranici. Anche perché il compito è stato bene assolto da Giancarlo Dotto, il collaboratore assiduo di Bene in trent’anni di teatro, nel suo “Elogio di Carmelo Bene”, edito dalla napoletana Tullio Pironti Editore. Trovandosi davanti allo stesso panico da foglio bianco nel provare a svelare l’irrivelabile, quel mistero che ebbe nome Carmelo Bene (mistero innanzitutto per sé stesso), lo scrittore e giornalista ha superato l’ostacolo nell’unico modo in cui poteva: raccontando il ‘suo’ Carmelo Bene, quello a cui è riuscito a dire «ti voglio bene» solo in punto di morte, intimidito dal senso di distanza che solo un alieno come il levantino poteva incutere, restituendoci l’umanità in fondo fragilissima e timida di una potenza artistica spaventosa e spaventata (da sé medesimo), impegnata a distruggere (per rifondare?) gli statuti dell’arte recitativa, i dogmi del teatro mondiale (da Shakespeare e Molière, da Wilde a Goethe), passando dalle «cantine romane» ai templi teatrali della Capitale, dallo scandalo di spettacoli proibiti come “Cristo ’63” e “S.A.D.E.” alle “lecturae” poetiche di Dante (memorabile la performance bolognese alla Torre degli Asinelli nel 1981, altro che Benigni: non ce ne voglia!), Laforgue, Leopardi, Campana, i poeti russi, in un’assolutizzazione del primato scenico della «phoné» («Tutta la storia dell’umanità è storia della phoné » – ha detto); una «cupio dissolvi», quella di Bene, che ha investito il cinema (amato/odiato in cinque pellicole brucianti che – dal 1968 al 1973 – aprono la strada a un cinema puro fatto di fantasmi teatrali e autobiografia ‘en travesti’), la televisione (celebre il suo «Uno contro tutti» al “Maurizio Costanzo Show” nel 1994-1995), la radio, la scrittura, il pensiero (capace di dialogare alla pari con Deleuze, Foucault e Lacan), in un percorso di vita/morte lanciato a tutta velocità incontro ad ogni eccesso e sregolatezza, in cui vivere ed essere «capo d’opera» sono stati un’unicum, indissolubile e irripetibile.