Nello splendido film A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron, un paesino della provincia americana veniva investito, casualmente, e trasformato dall’estro creativo dei tre protagonisti, aprendosi al mondo, un mondo con orizzonti colorati e diversi. Tra Napoli e Dolce&Gabbana è successa la stessa cosa e, allo stesso tempo, l’esatto opposto. Le celebrazioni tenutesi dal 7 al 10 luglio per i 30 anni della casa di moda, che hanno scelto Napoli per il mega-evento, hanno galvanizzato la città e hanno portato un indotto che la Confcommercio locale ha valutato per ora in 2 milioni di euro, oltre alla promozione e alla diffusione dell’immagine della città nel mondo. Ma anche Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno ricevuto da Napoli, hanno ricevuto qualcosa a livello creativo, input e soffi di vita.
Tralasciamo le sterili polemiche che si dividono in tre gruppi: chi crede sia sbagliato non aver chiesto 36.000 euro per il suolo pubblico da parte del Comune (invece De Magistris ha fatto bene, a fronte degli altri investimenti fatti dagli stilisti e ai benefici promozionali); chi, da cultori di una presunta vera arte, crede che sia stato un evento kitsch e che Napoli necessità di altro; chi non ha visto di buon occhio gli eventi a inviti e non aperti alla cittadinanza (critica assurda). Soffermiamoci su questo rapporto che si è creato tra Domenico Dolce, Stefano Gabbana e Napoli.
Gli stilisti hanno voluto comprendere Napoli, o almeno hanno davvero tentato, prima di sceglierla e dopo averla scelta, hanno goduto degli spazi, li hanno promossi e così pure hanno fatto con le maestranze locali. Non si dimentichi di come Napoli e la Campania (Capri, Positano, Solofra, solo per fare dei nomi) siano state storicamente luoghi principe di alta moda artigianale. E di eccellenze ve ne sono ancora. Un nome per tutti: Marinella. Se pensiamo anche alla gioielleria, la tradizione si allarga esponenzialmente.
I risultati della 4 giorni sono stati notevoli, anzi grandiosi, al di là del glamour. Dolce e Gabbana hanno compreso Napoli antropologicamente e hanno riversato questa comprensione nei loro abiti, che avevano tanto della pelle e dell’anima di Napoli. Si prenda il vestito omaggio a San Gennaro, che tanto ha destato scalpore. Alcuni hanno parlato quasi di “blasfemia”. Nessuna voglia di scandalo o spirito polemico vi era, ma anzi. Gli stilisti hanno rispettato e allo stesso tempo reinventato San Gennaro, con occhio antropologico (ed esiste antropologia della moda e del costume come disciplina) anche nella scelta della modella: in fondo San Gennaro è iconograficamente santo imberbe dai tratti femminei, tanto che, in sincretismo religioso, viene molte volte accomunato a Santa Patrizia, dal miracolo simile, le cui reliquie si trovano nella Chiesa di San Gregorio Armeno (non distante dalla location di una delle sfilate). E ancora abiti in cui si riversano le majoliche di Santa Chiara, Capri e anche le ceramiche di Vietri, e qui andiamo nel Salernitano.
E che i media nazionali italiani (non tutti ovviamente) non ne abbiano parlato quanto si sarebbe dovuto fa nulla. Napoli non vincerà mai in Italia, perché l’Italia dei media non lo permetterà. Anche senza cattiveria, è ormai quasi una prassi, un’abitudine. Ma Napoli può vincere all’estero. E questo anche grazie a Dolce&Gabbana.
Quindi: A Dolce&Gabbana, grazie di tutto! Napoli.