di Antonio Farese
Tema stranamente attuale, messo in forma narrativa da Giambattista Basile in Lo cuntu de li cunti nel 1634: l’eterna giovinezza ottenuta attraverso qualche trucco. L’eterna giovinezza promette l’eterna bellezza, un’ossessione molto antica, di cui l’archeologia restituisce tante testimonianze. Ciò che rende moderno il racconto La vecchia scortecata è la scelta, fatta da una donna vecchia e decadente, di ricorrere ad un maldestro intervento di chirurgia plastica, sottoponendosi ad una sorta di peeling.
Il racconto è innescato da un iniziale equivoco: un re scambia due vecchie sfatte e misere per due fanciulle, udendo le voci e osservandone un dito mignolo, che è stato succhiato per otto giorni fino a farlo diventare liscio come la pelle di un’adolescente, esposto attraverso un pertugio.
La scena si apre con i due attori, Carmine Maringola e Salvatore D’Onofrio, assorti a succhiare violentemente il proprio dito, un lungo atto di erotismo orale durante il quale, ogni tanto, uno sugge il dito dell’altro.
Emma Dante, rivisitando il testo con una serie di «variazioni sul tema», sceglie di assegnare il ruolo delle vecchie al sesso maschile, ottenendo un effetto mimetico sorprendentemente credibile. Ma l’intuizione teatrale fondamentale è stata eliminare la figura del re, lasciando l’intera scena alle protagoniste: un procedimento di ablazione più che di eliminazione, poiché il personaggio è riassorbito nella psiche proiettiva delle vecchie. In questo modo, un testo che evolve verso una storia di invidia tra sorelle, si trasforma in un’esperienza visionaria di due soggetti che, alla fine della vita, agognano un ultimo, impossibile, sussulto di giovinezza: una vicenda grottesca diventa un dramma di solitudine e follia. Eppure, la scena muove suscitando non poche risate in platea, merito anche degli attori, intensamente immersi nel ruolo.
Ci sono alcune interpolazioni, momenti che si allontanano dall’originale e virano verso un teatro comico popolare di tradizione partenopea più contemporanea. A questa costruzione, gli attori hanno dato un contributo determinante durante la fase delle prove, del «laboratorio», fase in cui Emma Dante lascia ampia libertà di espressione e improvvisazione, rimodellando costantemente la scena. I cambi di registro sono omogeneamente integrati al testo seicentesco, che già in partenza è strutturato con una commistione di codici linguistici e registri narrativi: dal tono lirico si passa al più scurrile vernacolo, intercalando termini tecnici presi da varie branche e formule linguistiche tratte dal «sapere» e dalla saggezza popolari. Alcuni momenti, alcune battute e imprecazioni, sono ripresi da altre narrazioni contenute in Lo cuntu de li cunti. Alle protagoniste, in origine anonime, sono stati assegnati i nomi delle nonne di Carmine Maringola: Carolina e Rosenella (Rosa).
La scenografia è scarna, scura, composta da due sedie e un castello giocattolo che evoca le fantasie in cui le due desidererebbero abitare. Le luci seguono il ritmo della scena, composta da bestialità terrena e smarrimenti onirici; a volte inclinano verso chiaroscuri incisi, ma anche quando si perdono nella penombra hanno un taglio deciso.
Il re è evocato più volte, se ne citano le parole, come se gli accadimenti fossero avvenuti in un tempo precedente la scena. Quando Maringola indossa una ciambella di stoffa come fosse una corona e rievoca i dialoghi con il re, si crea un’attesa: che il re si mostri prima o poi. Progressivamente, la corona passa dalla testa di un attore all’altra, alternandosi nel ruolo, finché D’Onofrio svela che non esiste nessun re, ma che stanno recitando la commedia delle loro fantasie più intime per allontanarsi dagli orrori di un’esistenza isolata, marcia e maleodorante. Ma la sorella non desiste; persa nel desiderio di giovinezza, non vuole uscire dall’incanto.
Riassorbendo la figura del re nella psiche delle protagoniste, spariscono automaticamente le fatine che avrebbero dovuto trasformare la vecchia consunta in una splendida fanciulla, poi sposata dal re. L’incantesimo si dissolve nel delirio finale della vecchia, che chiede alla sorella di farle una «fatazione», una fattura per guarire dalla vecchiaia, esclamando «mi so’ stancata di essere vecchia». Chiede quindi alla sorella di operare il brutale tentativo, di essere scorticata per ritrovare la pelle giovane sotto quella avvizzita. D’Onofrio impugna una lunga lama, che proietta la luce riflessa verso la platea, schiarendo i volti del pubblico, per iniziare la decorticazione. La messa in scena risulta alla fine ancora più tragica rispetto al testo di Basile. Trapela la consapevolezza delle due vecchie di essere escluse dal mondo, impresentabili per la società, di non poter più raccattare i brani perduti della loro esistenza. Il loro tugurio è l’ultimo rifugio di una vita irrecuperabile, un «altro mondo» che non prevede uscite, dove ognuna sa di non poter «essere» senza l’altra, nonostante il rapporto litigioso.
L’eliminazione di personaggi, sebbene soggiunta durante le prove per una defezione che la Dante ha deciso di non rimpiazzare, diventa una scelta funzionale, che trasforma un breve testo letterario in scena teatrale. Risultano, quindi, amplificate le possibilità mimetiche dei due attori, moltiplicate le loro personalità e azioni. Le interpolazioni sono altrettanto funzionali: delineano con maggiore incisione i sentimenti delle protagoniste e il loro rapporto di delicata rudezza, ben reso dalla pesantezza del corpo maschile. Alla soglia dei cento anni, età dichiarata dalle protagoniste, il corpo perde la sessualità, smarrendo la distinzione tra maschio e femmina.
Il linguaggio corporeo degli attori è articolato in gesti faticosi, inceppati da cartilagini corrose, che raccontano il disagio di vivere servendosi dell’ilarità. Sono difficoltà che rafforzano il rapporto simbiotico delle sorelle, costrette a tenersi per mano e aiutarsi per compiere certi movimenti. I corpi sembrano liberarsi soltanto nel sogno di fantasie irrealizzabili Nel massimo momento onirico, Maringola indossa una parrucca sgargiante e un mantello bianco con sagomatura poligonale, cammina lento all’indietro verso il proscenio con movenze femminee, in controluce, caricando la scena di fascinazione erotica. I movimenti del corpo ritornano fluidi, suadenti, e la trasformazione sembra essere davvero compiuta.
Un ruolo potente è giocato dal linguaggio verbale, il napoletano seicentesco (e cinquecentesco, considerando che Basile si forma nella seconda metà del 1500). Curiosamente, non pochi nel pubblico credono che sia dialetto siciliano, pur avendone neanche la cadenza. In realtà, è una lingua perlopiù incomprensibile ad un napoletano ed appena comprensibile a chi provenga da luoghi, urbani e sociali, dove sia ancora in uso un lessico arcaico. La distanza temporale ne fa una sorta di neolingua, che si percepisce anche se non si capisce, che si sente anche se non razionalmente codificata. Grazie alla dedizione degli attori, capaci di conservare un ritmo serrato e costante, la parola diventa evocativa più che compresa, apre un squarcio nella comprensione, arriva in platea carica e imponente.
Grande modernità ha un aspetto psicologico, non esplicito ma sotteso nella storia, inerente la chirurgia plastica: il tema dell’aspettativa. Chi decide di sottoporsi ad interventi che ne modifichino l’estetica nutre automaticamente un’aspettativa rispetto al cambiamento; con una formula molto generica, si può riassumere nell’aspettativa di conseguire maggiore successo in campo sociale e, al limite, professionale. È un’aspettativa che racchiude in sé l’illusione del miglioramento.
Lo spettacolo sarà dal 29 gennaio al 03 febbraio 2019 per la prima volta a Napoli, presso Teatro Bellini , per poi passare a Vicenza con sole due date, 15 e 16 febbraio 2019, al Teatro Astra. Data unica a Pavia, 17 febbraio 2019, Teatro Fraschini e dal 19 al 22 febbraio 2019 a Modena, Teatro delle Passioni.Il calendario aggiornato è consultabile alla pagina http://www.emmadante.com/calendario/.
Photo©FrancoLannino