In un precedente articolo, si è fatto riferimento ai parametri di valutazione delle città. In particolare, si è notato come uno dei parametri nella definizione delle cosiddette “Città globali” (Alpha, Beta etc.) sia per l’appunto la capacità di influire su temi di importanza mondiale e di partecipare a eventi internazionali di particolare rilievo. Ora, partendo da questo presupposto e senza considerare certo la kermesse di Dolce&Gabbana come uno di questi eventi propriamente detti, si può comunque fare qualche considerazione in risposta a quanto scritto da Tomaso Montanari su “La Repubblica” il 14 luglio.
Montanari scrive: “Ora la domanda è: il grande evento di Dolce e Gabbana come va letto? Come qualcosa che non è inferno (sembra l’opinione prevalente, anche se spesso la motivazione che la sorregge è un disarmato: «meglio di niente!»), o come un pezzo del solito, immutabile, eterno inferno? Sono convinto che la risposta giusta sia la seconda: ciò che abbiamo vissuto in questi giorni non è la promessa di qualcosa di nuovo, è l’ennesima manifestazione dell’abdicazione perpetua di questa città.” E ancora: “Cosa c’è, infatti, di nuovo nella circostanza per cui un signore si prende Napoli, la chiude, la nega ai cittadini stessi e ci costruisce un apparato effimero? L’unica novità, rispetto ai riti di antico regime, non è una bella novità: ora la festa non è neanche a sollazzo del popolo, ma a totale beneficio del marketing del moderno signore e padrone.” Più avanti: “la prima immagine di Napoli ad essere importante è quella che viene trasmessa ai suoi stessi cittadini: e il messaggio per cui la città è di chi se la prende è un messaggio devastante”. E in conclusione: “Se – per non fare che un esempio – il lavoro straordinario della Fondazione Foqus ai Quartieri Spagnoli venisse raccontato con un decimo dell’enfasi e dello spazio riservati alle feste di Dolce e Gabbana non faremmo tutti un miglior servizio al corpo (e all’immagine) di Napoli?”
Sono pochi passaggi di un intervento più lungo, ma con un tono in tutto e per tutto simile ai passi riportati, e facilmente reperibile in rete. Quali sono ora i punti su cui riflettere e che (almeno per chi scrive) non si possono condividere. In un recente scambio di idee aperto, avvenuto, come spesso accade, su Facebook tra addetti ai lavori e intellettualità di diversa provenienza, si è posto l’accento su Napoli come laboratorio in divenire di diverse realtà sociali e culturali, che vanno dall’autoctono (come l’esperienza dell’Asilo o dell’Ex-OPG) a eventi esterni come, per l’appunto, Dolce&Gabbana, a cui si possono aggiungere fermenti istituzionali (come la conferenza EGOS, ma anche gli sviluppi dei musei napoletani con i loro nuovi direttori). Una città che quindi è inclusiva e includente sempre più.
È sbagliato, quindi, ragionare, come sembra fare Montanari in un gioco retorico fine a se stesso, su bianco e nero, buoni e cattivi, giusto e sbagliato. Considerare la realtà, in questo caso napoletana, come un aut-aut tra due cose che si escludono in nome di un qualcos’altro di non chiaro (ma che ha il sapore di presunta e stantia sacralità e intoccabilità in contrapposizione all’effimero). “Cosa può fare un evento “esclusivo”, se non escludere? Escludere ancora un po’, in una città che ha, invece, bisogno di inclusione come dell’acqua”, scrive Montanari. Ma è lo stesso ragionamento di Montanari ad essere esclusivo ed escludente, quando invece Dolce&Gabbana non esclude assolutamente la possibilità (e il fatto) che vi sia e si faccia altro a Napoli e per Napoli. Si può sindacare, a seconda dei gusti, se la kermesse di moda sia stata un bell’evento, ma è stata un evento utile.
I napoletani non sono spettatori, ma attori e partecipanti, non tutti allo stesso momento ovviamente. A tal proposito, nel caso di Dolce&Gabbana, si ricordi che le maestranze e gli artigiani erano locali.
Si concluda con quanto detto in principio. Una città deve avere appeal all’interno come all’esterno e deve crescere su due fronti. Deve avere un’immagine felice trasmessa ai suoi abitanti (e non solo un’immagine), ma deve anche saper essere venduta all’esterno. E questo aspetto appare chiaro all’Amministrazione comunale e a molti addetti ai lavori. Non esiste un solo successo conseguibile rispetto ad altri effimeri e sbagliati, ma anzi vi deve essere coesistenza e diversificazione di obiettivi e successi tutti possibili e conseguibili rispetto a un obiettivo e successo comune che è il bene della città.