di Tiziana Paladini*
In “Lettere contro la guerra”, Tiziano Terzani ha scritto:
“Ci sono giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una traccia, quasi non si fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono giorni così, e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare, distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così: solo dopo si apprezza il prima e solo quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sarebbe averlo nel presente. Ma non c’è più“.
Non ricordo nulla di quel che ho fatto il 3 giugno del 1994, ma ricordo nei dettagli il pomeriggio del 4. Perché la notizia della morte di Massimo Troisi mi gelò, mi fece barcollare e da quel momento ho sentito la sua assenza come un dolore da cui difficilmente ci si riprende.
Una delle cose più ovvie che si dice rispetto al dolore è che il tempo guarisce le ferite. Una volta ho letto che forse è così, almeno in parte, visto che con il tempo la ferita si cicatrizza, ma è vero anche che la cicatrice resta, quasi a ricordarci quel dolore, che c’è stato e che niente e nessuno potrà annullare.
A me capita spesso di cercare video, immagini, scritti che non conosco, quasi a illudermi che Massimo sia ancora qui, per poter assaporare una qualunque battuta, freddura, colpo di genio. E nel corso degli anni, quando ho avuto l’opportunità e la fortuna di incontrare alcuni degli amici di Massimo, si tornava sempre sul perché era ed è così importante conservarne e custodirne gelosamente la memoria.
Io penso che il motivo più forte che ci spinge a parlare di Massimo, a ricordarlo, abbia anche una connotazione profondamente egoistica, perché – parafrasando Radiguet – “si è sempre avidi di sorprendere ciò che è stato a contatto con le persone che abbiamo amato”, e di fronte alla mancanza di una persona come Massimo Troisi cerchiamo quasi ossessivamente le persone che lo hanno conosciuto, le cose che ha fatto, nella speranza di cogliere qualcosa di nuovo, qualcosa che ci era sfuggito.
Enrico Giacovelli ha scritto che Massimo è morto “prima di vedere l’Italia trasformata in repubblica televisiva e pubblicitaria dove il chiasso, l’ignoranza e la stupidità regnano sovrani e i volumi sono sempre troppo alti”. Forse è così, o forse ci fa comodo raccontarcela così.
E forse questo è proprio uno dei motivi per cui mi manca così tanto: di sicuro anche oggi Massimo ci aiuterebbe a ridere, a riflettere, a esorcizzare certe paure. E a stare meglio.
Personalmente il dolore di venti anni fa è rimasto immutato.
Ha ragione Renato Scarpa quando, citando Dickens, ricorda una frase che ciascuno di noi avrebbe potuto e dovuto dirgli: Massimo era davvero “una di quelle persone che si incontrano quando la vita ha deciso di farti un regalo”.
* Saggista, ricercatrice, studiosa di teatro comico, ha pubblicato (per Luca Torre Editore, Napoli) studi su Eduardo Scarpetta, Massimo Troisi e “La Smorfia”, Totò, Peppino De Filippo e Tina Pica.