Youth è l’unico film possibile per Paolo Sorrentino, dopo La Grande Bellezza. Il regista napoletano, infatti, dopo i clamori di una Roma caotica e decadente, strabordante di un silenzioso fracasso, con le sue miserie umane e possibili redenzioni, cerca conforto e nuova linfa vitale tra le calme e verdi Alpi, tendenzialmente silenziose ma riempite dai corposi dialoghi degli attori. Qui, in un rinomato centro benessere Michael Caine/Sorrentino si sottopone ad un trattamento completo rigenerativo, in un viaggio intimo ed appassionato nella memoria, nei ricordi, in cerca della forza per proiettarsi verso il futuro. Le tematiche trattate sono universali: la vita, la morte, il rapporto familiare ed una per niente celata paura del futuro. Il film inizia e finisce in musica, assoluta protagonista delle scene, come Sorrentino ci ha abituato da tempo.
L’incipit è una sequenza mozzafiato, tutto un avvolgente e tenero movimento circolare, sulle note di You’ve got the love, in cui si strizza l’occhio all’immortale girotondo della vita di felliniana memoria; e non può che concludersi in musica nella tanto ritrovata energia vitale che porta Fred Ballinger nuovamente alla struggente direzione d’orchestra, nell’esibizione delle sue Canzoni Semplici. E ancora una volta il senso della vita è qui, in questa circolarità musicale da cui non ci si può (né ci si deve) sottrare. Lo scandaglio psicologico è ricco e profondo: la paralisi emotiva di Michael Caine, la forzata vitalità di Harvey Keitel, il doppio dramma della Weisz, da un lato figlia impietosa e sofferente nei confronti di un padre che non ha avuto che pensieri per la musica, dall’altro moglie abbandonata dal marito per una popstar di dubbie qualità. Memorabile il battibecco tra la giovane star del cinema, tristemente nota più per aver indossato il costume di un robot che per le sue reali qualità attoriali, e Miss Universo, solo apparentemente priva di intelletto, sulla consapevolezza del proprio fare e le ripercussioni sulla vita presente e futura.
La trama, anche stavolta, è poco più di un pretesto per la sontuosa messa in scena, dove l’immagine e il suo commento musicale la fanno da padroni. La regia, però, maggiormente confacente al paesaggio alpino, risulta più calma e pacata rispetto all’esasperato tecnicismo e virtuosismo de La Grande Bellezza. È un racconto intimo e riuscito, quello del regista napoletano, che ci fa viaggiare nel tempo e nell’età, e che ci conduce ad un bivio: guardare avanti, perché solo in tale sguardo risiede la vera giovinezza, o guardare al passato, rimpiangendolo con la assoluta incapacità di reagire allo scorrere della vita e del tempo, rimanendo in uno stato di morte emotiva.