“Nápoles, barrio Fuorigrotta. Detrás de las Tribunas del Estadio San Paolo se encuentra el ser.t – servicio para la toxico dependencia. En este barrio, que los domingos se llena de hinchas, hay un lugar que protege las historias y la vida de médicos y pacientes. Por más de dos años he frecuentado el ser.t escuchando las voces de los que intentan salir de la ‘dependecia’, definida por los médicos como ‘la enfermedad del deseo’. Cada uno parece tener su terapia, aunque a veces es sólo un intento”.
Queste le parole di lancio che hanno accompagnato il documentario La malattia del desiderio della giovane regista napoletana Claudia Brignone, al Festival Internacional De Cine De Derechos Humanos De Buenos Aires, dove è stato proiettato il 18 giugno al Centro Cultural Haroldo Conti e il 23 al Centro Cultural Rojas, dopo essere stato (e premiato) al Salina Doc Fest, al Napoli Film Festival, all’AstraDoc, e in svariate città italiane, tra cui Roma e Milano.
Una prima volta internazionale di grandissimo prestigio che premia un’opera riuscita. Insomma, La malattia del desiderio è davvero una bella prova, un bel documentario sotto vari punti di vista.
Ma partiamo dalla “trama”, già descritta sopra in spagnolo: Napoli, Fuorigrotta. Sullo sfondo c’è lo stadio San Paolo e sotto la curva A sorge il Ser.t: servizio per le tossicodipendenze. In questo quartiere, che la domenica si popola di tifosi, c’è un luogo che custodisce le storie di medici e pazienti. Per più di due anni ho frequentato il Ser.t ascoltando la voce di chi prova a uscire dalla “dipendenza”, definita dai medici “la malattia del desiderio”. Ognuno sembra avere la sua terapia, anche se spesso si rivela soltanto un tentativo.
L’argomento è chiaramente difficile, anche affrontato altre volte (la tossicodipendenza), ma ciò non è un ostacolo per la riuscita dell’opera. Ha scritto bene Daniela Abbrunzo, sul “Corriere del Mezzogiorno” nell’ottobre 2014, quando descrive il documentario di Brignone come un film di osservazione “che s’ispira ai grandi maestri del documentario narrativo, come lo statunitense Frederick Wiseman e il francese Nicolas Philibert”.
La malattia del desiderio è quindi un film di osservazione, ma senza tutti quegli elementi che penalizzano documentari su tematiche simili. Non vi è sensazionalismo nel descrivere medici e pazienti, non si vira assolutamente verso il patetico. Questo nonostante si pianga e si strappino anche sorrisi, momenti che non sono costruiti o cercati dalla regista, ma naturali, insiti nella narrazione e nei “personaggi”. L’osservazione è la nota chiave di un lavoro che, nella sua durata di 57 minuti, è costata 3 anni di lavoro della regista che ha seguito il lavoro dei medici del Ser.t e dei pazienti. Ma la sua è stata un’osservazione “evolutiva” che si è fatta sempre più intima e che ha accorciato le distanze per instaurare un “dialogo”, arrivare a una partecipazione nell’osservazione che è anche una partecipazione dello spettatore. È evidente come la regista diventi parte dell’ambiente, conquistando la fiducia, ad esempio, delle persone che sta filmando. Una partecipazione delicata e non invasiva. E in questo senso è emblematica la frase finale, che chiude un film che avrebbe potuto continuare, ma che lì la regista ha deciso giustamente di interrompere.
Una frase da sentire, che mostra come per tutto il film l’osservare si leghi all’ascoltare le parole dei medici e i pazienti.
A questi elementi, si lega una sapiente regia che non cerca la bella immagine, ma la realizza egualmente (si pensi all’immagine di apertura), che guarda alle persone ma non solo. Perché la storia delle persone è anche la storia del luogo. Chi è quindi il protagonista de La malattia del desiderio? Le persone o il luogo? Entrambi.
[Photo: https://www.facebook.com/pages/La-Malattia-Del-Desiderio/379602528906163?fref=ts]