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Cinema, Libri

Cartoni molto animati: Salvate il soldato Donald di Alessia Cecchet

cecchet È fatto noto che Mussolini fece affiggere a Cinecittà nell’aprile 1937, nel giorno dell’inaugurazione dei più celebri stabilimenti cinematografici nazionali, la gigantografia della scritta «La cinematografia è l’arma più forte», riprendendo – si dice – una massima di Lenin: da qualche anno le immagini in movimento avevano acquistato la parola e i capi di stato dimostrano una percezione precoce della loro capacità di suggestione ideologica sulle masse. Non è necessario scomodare Le Bon e il suo Psicologia delle folle (che pure più di un dittatore deve aver letto…) per intuire la potenza del condizionamento – spesso subliminale – della settima arte sulle vite dei popoli. Di ciò si accorgono, tra le prime, Unione Sovietica ed Italia, segue a ruota la Germania. Ma gli Stati Uniti di Roosevelt non vogliono essere da meno. Nei dolorosi tre lustri che conducono dal ‘martedì nero’ del crollo della Borsa di New York del 1929 alla fine della Seconda Guerra Mondiale pochi mesi dopo la morte dello stesso Roosevelt (aprile 1945) – passando per la data fatidica di Pearl Harbour (7 dicembre 1941), la Dream Factory hollywoodiana ha già imparato a fare da puntello ideologico alle politiche del «New Deal» prima, mettendo in campo un vigoroso ‘ottimismo della volontà’ (si pensi a Capra della cosiddetta ‘trilogia sociale’ degni anni ’30), alle pressioni interventiste poi, per finire con la propaganda di guerra vera e propria.

Accanto al cinema ‘in carne ed ossa’, un ruolo cospicuo verrà assegnato dalla propaganda culturale a stelle e strisce al giovane comparto d’animazione, che all’altezza dei giorni di Pearl Harbour può già vantare maestri e pubblici consolidati: dalle silly symphonies e dai primi lungometraggi a soggetto di Walt Disney (si ricordi il generale americano che si commuove alla visione di Dumbo in 1941 di Steven Spielberg) alle peripezie di Popeye e Betty Boop che imperversano negli studios dei fratelli Fleischer, fino alla scuderia di animazione Warner guidata da Leon Schlesinger, fucina di talenti che hanno nome Tex Avery, Fritz Freeleng, Chuck Jones, Bob Clampett, Frank Tashlin, per citare solo i maggiori, dalle cui matite escono i tratti di Bugs Bunny, Duffy Duck, Road Runner e gli altri Looney Tunes.

Pearl Harbour a parte, gli Stati Uniti, non subendo invasioni territoriali nel corso del conflitto, non sentono il fiato sul collo delle potenze dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo ed è quindi più difficile, on the homefront, conquistare gli americani alla «giusta causa» dell’intervento militare sui fronti europei, africani e asiatici, dove peraltro si profila l’urgente necessità di tenere alto il morale dei soldati oltre che di fornire loro basilari informazioni per il consolidamento dello spirito di corpo (di qui i film d’animazione destinati esclusivamente alla circolazione in ambienti militari). Ogni strumento atto a raggiungere lo scopo è utile: arte-bambina che si rivolge in realtà a tutti i pubblici, capace di agitare dinamiche psicologiche elementari, di dare la parola ad animali, piante e oggetti, dove – per il fondamentale principio di reversibilità – l’eroe sopravvive ai più terribili incidenti e a dominare è una visione fieramente ottimistica delle cose e del mondo, i cartoni animati offrono terreno fertile per la maturazione di uno spirito di popolo coeso e solidale con la visione governativa del conflitto.

Nelle pagine che il lettore fa scorrere tra le mani, in prosa limpida ed essenziale, con scrupolo del dettaglio e inusitata passione, Alessia Cecchet ripercorre la storia del cinema di animazione americano di propaganda con sguardo e strumenti nuovi, spogliando fonti dirette e indirette, americane e non, consultando documenti inediti degli Uffici Speciali preposti alla supervisione della settima arte in chiave propagandistica, chiamando in causa opportunamente le testimonianze dei diretti protagonisti di quella storia: ecco allora susseguirsi sullo schermo, in ordine sparso, le peripezie di Paperino prigioniero di un incubo a croce uncinata che si tramuta nel rassicurante lucore lattiginoso di un’alba yankee; lo stesso Donald Duck paladino del risparmio e dell’acquisto di titoli di guerra dopo ‘lunga tenzon’ tra il suo angelo e il suo diavolo custodi; Pluto disposto a rinunciare a succulenti avanzi di grasso pur di destinarli al riuso nella fabbricazione di esplosivi; Hitler, Mussolini e Hirohito lugubremente zoomorfizzati di volta in volta in tronfi paperi, sinistri avvoltoi o ebeti scimmiette; l’anonima figurina del soldato qualunque, Private SNAFU (singolare acronimo che mette insieme normalità e caos), goffo e pelandrone, affetto da infantry blues e sempre pronto a cedere alle pulsioni del basso ventre (e qui il codice Hays si allenta…), artefice di tutto quanto non va fatto nell’esercito per vincere una guerra ma anche capace di assorbire la lezione che lo fa sentire parte di un tutto, ingranaggio nell’oliato meccanismo che condurrà inevitabilmente alla vittoria, quella ‘V for Victory’ musicalmente prefigurata dalle note iniziali della Quinta Sinfonia di Beethoven (che riproducono i segni della V in alfabeto Morse) di cui nessuno sottolinea il paradosso (un brano di musica nemica): sarà che siamo in un cartone, dove tutto può accadere.

[Prefazione al volume Salvate il soldato Donald di Alessia Cecchet, edizioni Arcoiris, Salerno, 2017]

http://www.edizioniarcoiris.it/nastri-dargento/129-salvate-il-soldato-donald-cinema-di-animazione-di-propaganda-americana-durante-il-secondo-conflitto-mondiale.html

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