Le aspettative erano alte da Shirin Neshat, la grande artista e regista iraniana, nota in Italia per la sua pellicola del 2009 Donne senza uomini che, a Venezia, vinse il Leone D’Argento per la regia. Così alte erano le aspettative per Shoja Azari, suo abituale collaboratore. E infine erano alte le aspettative per la location prescelta: il Museo Diocesano Donnaregina Vecchia, per il quale il site specific Passage through the World era stato appositamente pensato dai due artisti per il Napoli Teatro Festival Italia 2016.
Aspettative alte che si sono mantenute il tempo di entrare nello splendido, suggestivo spazio e i primi minuti dello spettacolo, per tramutarsi poi in un qualcosa di confuso, incomprensibile. Leggiamo nella scheda: “Il progetto site-specific mette a confronto le innumerevoli confluenze culturali che hanno arricchito le terre dell’Asia centrale passando per il Medio Oriente e i Balcani fino a giungere al Sud Italia. Un progetto artistico contemporaneo che indaga i temi della perdita e della rinascita attraverso il ciclo della vita e della morte, affrontati dalle diverse culture dei paesi in cui questo percorso si snoda”.
Nulla di tutto questo è stato evidente né comprensibile dalla visione dello spettacolo. In primo luogo, Passage through the World sembra non avere una costruzione di alcun tipo, non sembra avere un inizio e una fine, ma neanche essere un circolo di vita, morte e rinascita. Gli elementi e i suoni che compongono lo spettacolo sembrano buttati lì tanto per riempire lo splendido spazio scenico della location. I suoni, che pure rimbombano, riecheggiano potenti nella chiesa (e Moshen Namjoo è sicuramente un grande interprete di vibrazioni persiane), non hanno dato vita a riecheggi di influenze culturali, di rimandi, ma a una confusione sonora quasi fastidiosa. Fastidiosa perché furba, quasi compiacente (a torto) il pubblico locale. Si pensi all’Eterno riposo recitato più e più volte in video e dai due cori laterali dal vivo. Fastidiosa perché molte delle musiche erano registrate (e semplicemente registrate, senza scusa di video-arte quindi).
Gli errori di costruzione dello spettacolo non si limitano ai suoi, che pure sono parte essenziale, ma anche in altre componenti.
Da un punto di vista “drammaturgico”, manca un evoluzione, uno svolgimento. Le performance, anche le più concettuali, devono avere un moto ondulato fatto di accelerazioni e rallentamenti, di picchi e di discese. In questo caso, la linea è risultata piatta sino a poco prima della conclusione, dando allo spettatore una sensazione di aver assistito per tutto il tempo a qualcosa che dovesse ancora iniziare.
Passage through the World avrebbe potuto funzionare se Neshat, presente in sala, e Azari avessero lavorato per sottrazione: sottraendo i video; sottraendo soprattutto i cori laterali composti da “I Giullari di Dio” della Parrocchia di Santa Chiara e dalla sottoutilizzata Antonella Morea, e che non avevano nessuna vera utilità nello spettacolo.
Se si fosse posto il tutto come un semplice concerto, le aspettative sarebbero state diverse e anche il risultato ne avrebbe giovato. Un vero peccato, perché, come detto, le doti di Moshe Namjoo sono fuori discussione, così come la bravura di Maristella Schiavone, Gabriella Schiavone, Maria Teresa Valllarella e Serena Fortebraccio. Sarebbero bastati loro cinque soli in scena e qualche effetto di luce per valorizzare la location e rendere quei suoni accessibili.
[Photo: napoliteatrofestival.it]