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Il cibo è cultura: intervista con Federico Valicenti

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Lo chef Federico Valicenti è uno degli osti più celebri e rinomati d’Italia, rappresentante di quella gloriosa tradizione nostrana che è per l’appunto l’osteria. Non a casa lo hanno voluto a Master Chef Italia come giudice ospite della semifinale della terza stagione, dove una dei concorrenti ha dovuto ricreare la sua “trippa risottata”

Allo stesso tempo, è un reinventore della tradizione, uno (ri)scopritore di gusti, cibi, ricette e cucine antiche riproposte con grande fascino (e ovviamente gusto) al giorno d’oggi nel suo ristorante “Luna Rossa” a Terranova di Pollino, Basilicata. Uno chef per il quale cibo è, in primo luogo, cultura e identità di popolo e di territorio, intrinsecamente legata al luogo. Se per il francese Alain Roger parla di “artialization” del territorio, per Valicenti si potrebbe parlare di “gastronomization”. Si ritiene per questo un “cibosofo”, filosofo del cibo e della sua cultura.

Non a caso sono arrivati i numerosi premi, dalla Guida Michelin al Gambero Rosso, da Slow Food al Touring Club e tanti altri. Come non è un caso la sua attività al di fuori della cucina, in qualità di scrittore e autore di ricettari-saggi e saggi-ricettari (in un connubio inscindibile, perché per cucinare bisogna conoscere e capire il cibo, la sua storia, i suoi luoghi e le sue origini). Nascono così, ad esempio, Gli Atlanti della Tavola che sin dal titolo sottolineano il rapporto tra cibo e territorio.

Mercoledì 21 ottobre, lo chef Valicenti è stato ospite di eccezione al Centro Campania nel secondo appuntamento della rassegna “Cuoco Maestro”. La manifestazione, dal 14 ottobre 2015 al 25 novembre, per sette mercoledì, dalle 21 alle 23, vede protagonisti sette grandi chef che racconteranno la cucina delle regioni italiane e mostreranno tecniche di cucina popolare.

Ospite del primo appuntamento, Chef Rubio, noto per la trasmissione Unti e Bisunti, quindi Federico Valicenti cui seguiranno: Marilù Terrasi, chef del “Pocho” a San Vito lo Capo in Sicilia; Alice Delcourt, chef del ristorante “Erba brusca” di Milano; Salvatore Toscano, chef dell’osteria “Mangiando Mangiando” a Greve in Chianti; I de Gregorio, dello “Lo stuzzichino” a Sant’Agata dei due Golfi in Campania; Giorgione Barchiesi, chef nel suo ristorante “Alla via di mezzo”  di Montefalco vicino Perugia.

Per l’occasione, incontriamo lo chef Valicenti e poniamo qualche domanda su cibo e cultura.

Chef Valicenti, lei ha scritto Gli Atlanti della Tavola. Qual è il ruolo che la cucina e la gastronomia riveste nell’identità di un luogo e di un popolo?

Il cibo racconta le identità del territorio. I turisti di oggi sono cambiati, la gente nei luoghi che visita si propone una full immersion negli usi e costumi cercando di sentirsi partecipe, metabolizza le tradizioni, cerca ,attraverso il gusto, la conoscenza della memoria del luogo. Scrivendo Gli Atlanti della Tavola ho voluto creare un’emozione più conoscitiva del territorio attraverso le colture e la cultura che lo impregnano e che esprime attraverso la ricetta.

Si definisce un cibosofo. Cosa intende per cibosofia?

È il racconto dei territori, del loro pensiero attraverso il cibo. Grandi filosofi nella storia dell’uomo hanno usato il cibo e i prodotti della terra per raccontare la vita, per far comprendere quanto siano unite, più di quanto si pensi, la gola e il cervello. Il mondo ha bisogno di una nuova cultura del cibo, ha bisogno della cibosofia. Non solo gli atavici filosofi, ma anche quelli contemporanei hanno compreso che non esiste un futuro letterario con l’omogeneizzazione dei sapori perché attraverso la non cultura che questo mondo si porta dietro, si rischia anche l’omogeneizzazione dei saperi.

Oltre che chef rinomato è anche autore. A differenza di altri, lei non ha mai scritto semplici ricettari, ma veri e propri studi che si concludono con le ricette. Ce ne vuole parlare?

Io sono un sostenitore dell’archeogastronomia, che è espressione dell’evoluzione della specie umana. Raccontare una ricetta attraverso la conoscenza del prodotto, del percorso che ha fatto per arrivare in quel luogo, la sua coltivazione e il suo uso nella cucina diventa quanto mai intrigante. Questo studio permette di entrare in punta di piedi nel mondo più variegato e complesso dell’antropologia attraverso il gusto. È un percorso totalizzante dove la curiosità spinge verso la conoscenza diventando sempre più appagamento culturale e capacità di lavorare la materia prima, mantenendo intatta la sua storia e il suo sapore . 

Oltre a questi, è stato anche autore di opere di narrativa, nello specifici di favole e racconti per bambini a tema gastronomico, come l’ultimo C’era una volta Hèraclea – La favola del cibo lucano. Crede che i bambini dovrebbero essere educati al cibo?

I bambini sono il futuro, quindi vanno educati al cibo attraverso la conoscenza delle colture e delle proprie tradizioni. Il ritorno all’orto simbolicamente significa tanto, soprattutto per le nuove generazioni. Senza demonizzare nulla, ma il rapporto con il cibo tra adulti e bambini va rivisto, l’educazione al cibo e alla conoscenza degli alimenti va rafforzata e rivisitata in modo che diventi salutistico e di gusto.

Come definirebbe la sua Basilicata da un punto di vista gastronomico?

La cucina lucana, la nostra cucina, è fatta di mille prodotti e migliaia di sapori e profumi. La cultura del cibo e del mangiare bene, sano e pulito è congenita alla nostra civiltà gastronomica, culla del Mediterraneo. Tutte le merci, tutte le spezie, tutti i profumi sono passati dalla nostra regione, ad ogni mercato di sapori abbiamo rubato le essenze e le abbiamo fatte nostre, coltivate e trasferite in cucina, da millenni. Sapienti mani di abili cuochi e cuoche hanno saputo assemblare i prodotti, custoditi in piccoli segreti e tramandati da madre in figlia, da nonne a nipoti, per tradizione e convinzione. Ricette non scritte hanno incuriosito la mente ed il palato, sviluppato l’immaginazione e la fantasia, moltiplicato i colori e le geometrie dei piatti e della loro preparazione. La tradizione orale ha permesso di arricchire la ricetta ogni volta con qualcosa di nuovo così che ad ogni racconto, ad ogni preparazione si aggiunge o si toglie un ingrediente, un’essenza, rendendo il piatto originale, unico, irripetibile.

Cosa ne pensa del rapporto dei napoletano con il cibo e la sua ricca tradizione?

La teatralità del gusto e del cibo di  cui  Napoli è impregnata e che attraverso questo grande mezzo comunicativo ha saputo far amare e fatto conoscere la sua cultura gastronomica nei secoli, dall’evoluzione della pizza fritta alla margherita, dal colì dei Monsù al ragù di Eduardo de Filippo, dalla fame atavica di Totò al caciocavallo appeso  del Cardinale Ruffo, dalla manteca riempita di burro alla mozzarella di bufala, dall’evoluzione del popolo napoletano da mangiafoglia a mangiamaccheroni. Penso che nessun altro popolo possa raccontare la sua storia così intrisa di cibo e di prodotti inossidabili nel tempo.

L’Italia è ancora il Paese della buona tavola?

Penso che non scomparirà mai, è nel nostro dna la cultura del buon cibo, della sua preparazione e dell’estetica. Questi tre doni messi assieme diventano bellezza, e la bellezza non sfiorisce mai, nemmeno quando si è vetusti!

[Photo: youtube.com]

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