Libro della Shoah italiana, i racconti di chi è sopravvissuto. Tra i tanti frammenti troviamo memorie che sembrano appartenerci. Un argine all’oblio?
In un attimo, con una violenza indescrivibile, inaudita, fummo scaricati dai vagoni nei quali eravamo stati pressati per molti giorni… Non capivo niente: dove fossi arrivata, cosa sarebbe successo, cosa avrei dovuto fare, qual era il mio destino. E stavo stretta, stretta alla mano di mio papà e intanto guardavo questa marea di prigionieri che erano scesi dal treno.
E’ la testimonianza di Liliana Segre, ebrea italiana sopravvissuta ad Auschwitz. La sua voce è stata raccolta, insieme a quella di altri 104 ex detenuti nei campi di sterminio, da un gruppo di storici guidati da Marcello Pezzetti per conto della Fondazione Cdec (Centro di documentazione ebraica contemporanea). L’obiettivo del progetto è quello di lasciare una traccia completa delle vicende occorse ai deportati italiani sopravvissuti. Queste testimonianze sono confluite nel “Libro della Shoah Italiana”, ora acquistabile in edicola con Repubblica.
Perché vale la pena leggerlo?
Perché le voci in prima persona, frammentate, spezzettate in capitoli e sottocapitoli, ci rimandano immagini vivide, istantanee. I sopravvissuti raccontano le loro vite prima e dopo le leggi razziali promulgate nel 1938 in Italia fino all’inferno della deportazione. Lo fanno in modo lucido. Spesso affabile. Con intercalari dialettali. Emergono, nei brevi e molteplici frammenti organizzati in capitoli veloci, gli affetti, le relazioni familiari e gli ultimi, memorabili saluti.
Tra i tanti racconti, appunto, quello di Liliana, tredicenne al momento della deportazione. Di lei sappiamo, da un frammento precedente, che viveva in una casa grande con i nonni e il padre vedovo, al centro delle tenere attenzioni di tutti. Dopo il terribile rastrellamento e il viaggio nel vagone bestiame, arriva il momento della “selezione”: Divisero implacabilmente gli uomini dalle donne. Ecco che io lasciai per sempre la mano di mio papà e non sapevo che fosse per sempre, perché se no chissà come sarei stata. Tra le urla dei tedeschi, gli spari e i pianti, la ragazzina accompagna con lo sguardo il padre: Ci guardavamo da lontano; mi ricordo che io, con l’ultimo fiato, cercando di non piangere, gli facevo dei piccoli sorrisi, dei ‘ciao’ da lontano. Perché io ero sempre molto, molto preoccupata per lui, così sofferente, così disperato di avermi messo al mondo, così preoccupato logicamente per me. Poi, a un certo punto non l’ho visto più… e non l’ho visto mai più.
Quella di Liliana è una delle tante atroci esperienze di separazione, avvenute all’ingresso di Auschwitz. Ma quella stretta di mano, il salutare il papà cercando di non piangere mi si sono impresse dentro. Ho la sensazione che siano anche miei ricordi. Il dispiacere di non avere più la mano paterna è presente ancora. Sullo sfondo le urla, gli spari, la minaccia. Quella di Liliana è ora una mia memoria? Può esistere una memoria che non sia a personale? E se non è personale è veramente una memoria?
Forse il lavoro degli storici, in progetti come quello che ha dato origine al Libro della Shoah italiana, così minuzioso e personale, è importante proprio per questo. Caricando memorie personali del genocidio nelle nostre memorie singole, noi possiamo conservarle e tramandarne l’immanenza. Non solo con una doverosa commemorazione collettiva. Ma con la commemorazione personale, silenziosa. Una immagine, anche una sola, che ci riporti a quel momento, è già, per ciascuno di noi, preziosa perché carica di una emozione presente. In qualche modo conservare la memoria diventa un impegno a mantenere in vita. Una liturgia che ciascuno, nel proprio piccolo, può estendere ai volti dei prigionieri, mettendone a fuoco la storia.