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La poesia d’esordio di Francesco Romanetti con “Non siamo noi che andremo all’inferno. Ballate, tiritere e qualche poesia.” per PASSIONELIBRI 2014

Martedì 28 GENNAIO 2014 alle ore 18.30 si rinnova il consueto appuntamento con PASSIONELIBRI, la rassegna ideata e diretta dalla giornalista Ida Palisi (Il Mattino, Gesco) con la redazione di www.lovepress.it presso l’Archivio Storico di via Scarlatti 30 al Vomero. In programma l’incontro con Francesco Romanetti (Il Mattino) e il suo esordio in versi “Non siamo noi che andremo all’inferno. Ballate tiritere e qualche poesia” (Intra Moenia Editore) con la prefazione di Roberto De Simone. Ingresso gratuito.

La dedica a “ad aureliano e ginevra remedios” (tutto in piccolo) che apre il volume solleva quello che è già più di un sospetto della ispirazione marqueziana, la quale trova presto conferma nella densa prefazione di Roberto De Simone: “ […] e negli scenari del presente autore, estinta la punteggiatura, quasi come un ri-conoscimento verso se stesso in García Marquez”. Ma se il lessico-madeleine proustiana, suggestivo e visionario, ricorda molto da vicino le atmosfere dell’autore di capolavori come  Cien años de soledad e El amor en los tiempos del cólera, è decisamente pasoliniana, oppure tenta di esserlo, l’altra metà del cielo di “Non siamo noi che andremo all’inferno. Ballate tiritere e qualche poesia” (Intra Moenia Editore), il volume dei versi d’esordio del giornalista di lungo corso Francesco Romanetti, romano di nascita, napoletano di adozione, a lungo sulle questioni internazionali ed oggi in forze alla redazione cultura del quotidiano partenopeo. Nelle liriche-non liriche di Romanetti, cosparse di amore per gli elenchi di dolori, controversie, disperazioni liberate senza pietà come raffica d’arma a ripetizione dal sapore bukowskiano, innocenti e colpevoli, ladri e puttane, rom in rivolta e bambini dell’asilo, assassini e padri di famiglia. Si parla di un criminale di nome George W. Bush, delle ragazze dell’Olgettina, di Auschwitz, di un lungo sogno di Hugo Chavez e dell’inverno russo del 1942, mentre in più di una pagina compare perfino Gesù Cristo. Il recupero al diritto alla parola come nudo proiettile è di sicuro un’istanza del volume, ma De Simone in prefazione avverte che l’espressione di Romanetti è “ […]come work in progress di linguaggio-scrittura che rimanda talora a una trasgressività perseguita con trascorsi rimpianti di una pasolinità critica, in cui i termini “puttana”, “cazzo”, “porco dio” già più non avevano l’aggressività di un primo uso, ma si ri-producevano come tollerate giovanilità concesse dall’alto e non conquistate dal basso, in un panorama sessantottino, dopo il quale i cosiddetti chierici di sinistra si erano imbalsamati in una retorica di svuotati valori pseudorivoluzionari che perdurano fino a oggi, ma per i quali converrebbe invece rileggere “Le avventure di Pinocchio” o il libro “Cuore” in versi martelliani rap o tradotti in uno slang da discoteca”. Resta preziosamente concreta tuttavia la poesia di Romanetti, e capace di raccontare un eterno presente, sempre vivo, sempre oggetto d’esame, senza la nostalgia dei classici: è forse nell’esperienza di Francesco Romanetti presso i fronti più caldi della storia umana questa preziosa capacità di conservare e proporre il continuum, sia esso quello della grande Storia che quello delle vicende degli individui.

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