Abbiamo incontrato il regista Vincenzo Marra – napoletano, classe 1972 – in occasione della retrospettiva che il Napoli Film Festival 2013 ha dedicato alla sua produzione documentaria.
Partirei dai tuoi progetti attuali…
Attualmente, sto lavorando al nuovo capitolo del mio lavoro dedicato a Napoli, un film dal titolo L’amministratore, su cui non posso dire nulla… Spero di riuscire a portarlo a qualche festival importante prima della fine dell’anno e, ripeto, è il quinto capitolo della serie di miei documentari su Napoli su cui in questi giorni il Napoli Film Festival sta ponendo l’attenzione.
Come percepisci e organizzi il tuo lavoro con gli attori/personaggi nel documentario e nel cinema di finzione?
Guarda, una volta un critico francese mi ha fatto il più bel complimento artistico che io abbia ricevuto finora quando mi ha detto che – secondo lui – faccio i documentari come i film di finzione e questi ultimi come i documentari: è una citazione che mi piace riportare quando mi intervistano; nei miei film di finzione cerco sempre di far scaturire la verità delle cose, di non offuscare mai lo sguardo sulla realtà mentre nei documentari, pur non alterando nulla, cerco di costruire un minimo di drammaturgia per far sì che lo spettatore non si annoi, come spesso succede in questo genere di film…
Hai raccontato Napoli attraverso il racconto del tifo organizzato, del mondo della giustizia, il progetto di Bagnoli Futura, ecc.: è questo il tuo “Grande Progetto” per parafrasare il titolo di un tuo film?
È uno dei miei progetti: ho raccontato Napoli anche attraverso la vita dei pescatori di Tornando a casa, la Scampia di Vento di terra e spero di poter dedicare sempre una parte del mio lavoro, del mio tempo per cercare finanziamenti, per scrivere progetti, al racconto di Napoli, la mia città. Tuttavia, questo non è un progetto esclusivo, un atto d’amore assoluto: è un fil rouge che mi accompagna sempre ma io ho altre “storie” dentro di me che sento l’urgenza di raccontare, che non hanno necessariamente un legame con Napoli.
Secondo la tua esperienza, qual è la capacità d’incidenza del tuo lavoro cinematografico – ed in generale del cinema documentario, specialmente – sulla realtà?
Dunque, rispetto alla possibilità di filmare, di “produrre memoria”, questa capacità è immensa; dal punto di vista del cambiamento della realtà, purtroppo, poca. Ogni tanto accade un “miracolo”. Chi ha visto il mio ultimo film, Il gemello, può rendersi conto del cambiamento avvenuto nel protagonista, Raffaele – detenuto nel carcere di Secondigliano – alla fine del film rispetto all’inizio, dal primo suo colloquio con l’ispettore di polizia carceraria all’ultimo, e attraverso questa esperienza credo sia intervenuto nel protagonista un cambiamento, uno “spostamento” verso il positivo. Purtroppo, ancora non ho potuto mostrare a Raffaele il film a causa dei farraginosi ingranaggi della burocrazia carceraria, ma spero di riuscire presto nell’intento.
Sei partito – specie nel tuo cinema di finzione – con il racconto degli ambienti popolari di Tornando a casa e Vento di terra per approdare ad ambienti e problematiche borghesi con L’ora di punta: cosa puoi dirmi al riguardo?
È un po’ la mia vita: sono di estrazione borghese, sono cresciuto nei quartieri Vomero e Posillipo, ma sono stato influenzato dalla scelta dei miei genitori di seguire, per lavoro, la vita delle classi più popolari e ho trasferito questa influenza nel mio cinema; posso dire di me stesso – anche se poi dovrebbero essere gli altri a suffragare questa mia convinzione – che la mia forza consiste proprio nella capacità di avvicinarmi con uguale esigenza di verità sia agli ambienti popolari che a quelli borghesi, in una tranquillità che viene percepita dalle persone che faccio entrare nei miei lavori e che li mette a loro agio.
Curi personalmente le riprese dei tuoi film ma hai stabilito per un certo periodo un duraturo rapporto di lavoro con il direttore della fotografia Mario Amura…
Si, con Mario ho condiviso un certo percorso, alcune solide esperienze in una ristretta fascia di anni, poi le nostre carriere si sono allontanate: ora è un po’ che non lo sento, so che ha fatto altre esperienze importanti, ma è da un po’ che non ci “seguiamo”…
Cosa ne pensi del Leone d’oro a Venezia a Sacro GRA di Gianfranco Rosi?
Ovviamente, sono contento per lui e per il documentario in generale. Non potrebbe essere altrimenti per chi – come me – dedica una parte importante del proprio lavoro a questa forma di cinema. Grazie al premio principale, il film di Rosi sta avendo anche una discreta distribuzione in sala, e questo significa che c’è un rinnovato interesse per il documentario. Ricordo, per esempio, che qualche anno fa a Cannes è stato premiato con la Palma d’oro un film “impegnativo” del thailandese Apichatpong Weerasethakul, molto osannato dalla critica ma ignorato dalle sale. Per fortuna, questa sorte è stata evitata al film di Rosi.
[Foto: Francesco Esposito, Napoli Film Festival]