Di Francesca Fichera.
Coinvolge, rapisce e insegna la scrittura di Gianfranco Pannone nell’opera-raccolta DocDoc, edita da CinemaSud: un diario dove il noto documentarista napoletano racconta, raccontandosi, dieci anni di cinéma de la realité visto e vissuto nel nostro paese. Facendo suo il principio rosselliniano secondo cui «non esiste una tecnica per cogliere la verità, solo una posizione morale», Pannone, attraverso le testimonianze scritte e pubblicate su ildocumentario.it da settembre 2001 fino agli ultimi mesi (e oltre) del 2011, passa in rassegna nomi, luoghi e soprattutto problemi legati al rapporto fra il panorama cinematografico nazionale ed il ruolo in esso occupato dal genere del documentario.
Quella del regista è una voce che si alza al di sopra del coro con decisione e chiarezza, anche e soprattutto in virtù di una conoscenza ravvicinata del settore-cinema, di una sua esperienza diretta, e non solo nei panni di addetto ai lavori o di responsabile dell’Associazione doc/It.
«A volte pare proprio che si faccia teoria con un po’ di sufficienza (o quando la scuola deve risparmiare); spesso, poi, confondendola con la storia del cinema e gli aneddoti che ci sono intorno ad essa. E saper scomporre una frase cinematografica? Spiegare perché in un documentario si è scelta la camera a spalla piuttosto che sul cavalletto? Credo che la pratica sia necessaria e vitale, ma è solo stupida retorica dire che della teoria si possa fare a meno. […] Di fronte a tutto ciò, è inevitabile che gran parte degli aspiranti registi che si presentano con l’idea di fare un documentario o più in generale cinema, non abbiano affatto le idee chiare. […] Non hanno gli strumenti per averle. Su di loro agisce la mitologia del cinema piuttosto che la conoscenza, un avvicinarsi all’arte in generale, verticale piuttosto che orizzontale».
Così Pannone condanna la moda – sempre più dilagante – dell’improvvisazione, rivelando un insolito (per questi tempi e per una certa idea di politica) spirito autocritico che non salva nemmeno doc/It ed i suoi membri dall’ormai colmo girone dei “colpevoli”. Perché se tutto va un po’ male è, sì, responsabilità di chi si autoproclama cineasta, ma anche di chi glielo lascia fare; di chi si isola nell’auto-produzione scadente, ma anche di quel talent scout che non si mette a rischio; di quei festival che lamentano l’indifferenza mediatica, ma anche di quegli organizzatori che si autorelegano nei circuiti locali, per limiti imposti, convenienza oppure orgoglio, privando il documentario italiano del necessario canale di comunicazione con l’analoga produzione proveniente dal resto del mondo. Del resto, c’è ben poco da aggiungere alla semplicità e all’intelligenza di DocDoc, né tanto meno è possibile riassumerle: si correrebbe il rischio di ridurre il valore di una lezione, piacevole e mai cattedratica, offerta con discrezione da un maestro vero. Uno che, prima di diventarlo, di maestri veri ne ha conosciuti tanti.
Photo © Michela Iaccarino