Cosa volete che vi dica: sono felice. Che ognuno tiri le proprie somme: tifosi, giornalisti, addetti ai lavori, simpatizzanti di un Sud che preferiscono pensare malmesso, odiatori di potere targato Juventus, che da sola catalizza quasi un intero sistema nel bene e, come tutto il potere pretende, soprattutto nel male.
Sarebbero a decine gli spunti da approfondire: il dubbio se si sia arrivati all’acme di un ciclo tecnico e societario o ad un punto di partenza verso lidi consolidati e vincenti; l’addio di una figura imponente, Lavezzi, sia dal punto di vista tecnico che da quello emozionale; la convinzione quasi lapalissiana che questo gruppo, modellato con un po’ di cieca passione (leggasi investimenti) e oculatezza nelle decisioni tecniche, avrebbe potuto senza colpo ferire contendere lo scudetto al duopolio targato Torino/Milano.
Ho sentito e letto quasi dappertutto fare riferimenti alla fame. La fame di vittorie. Tesi che pare tornare sempre utile quando si ha bisogno di sottolineare che a vincere è stata la compagine più debole, meno probabile almeno. Per chi vi scrive, al di là della componente legata al tifo, ieri si è disputata una finale tra due squadre dotate di valori e forze effettive accostabili. Uno scontro equilibrato che ha visto ergersi la squadra più forte. Quella con un gioco meno roboante ma più tecnico, più preciso. La Juventus ha tanto meritato di vincere questo campionato quanto di perdere la partita di ieri. Senza addentrarsi in dei ragionamenti psicologi, come quello delle motivazioni (raccontatemi, vi prego, di un solo professionista sportivo che arriva all’ultimo step di una competizione per cui ha lavorato per un anno intero e che decide anche solo inconsciamente di non volerla vincere)o del reale valore che si dà all’apparentemente bistrattata Coppa Italia, guardando la partita ho avuto sin da subito una sensazione che, pur rispettando l’alternanza di dominio determinata dal campo, attribuiva agli azzurri una sorta di superiorità complessiva. Nei singoli e nel piano di gioco. È certo che vedendo i 23 punti di differenza in campionato tale tesi potrebbe cadere sotto improperi di vario genere, ma io difendo a spada tratta quella che ritengo essere una valutazione se non oggettiva, molto vicina al vero. Gli azzurri non hanno mai dato l’idea di stare al cospetto di una squadra che fosse indiscutibilmente superiore ad essa. E non parlo soltanto di ieri. Parlo di Manchester sponda city, parlo della corazzata Bayern, parlo di Londra (per non parlare della sfida del San Paolo) contro i freschi campioni d’Europa. Insomma, guardando alla stagione nel suo intero sviluppo, come ci si può preoccupare di dover trovare motivazioni esterne ad una vittoria avvenuta contro una buona squadra, che probabilmente aprirà un ciclo, ma che quest’anno è stata agevolata da una mediocrità generale che non ha risparmiato nessuno? Nemmeno la stessa Juventus, se si pensa ad alcune partite con squadre di piccolissimo rango in cui si sono strappati soltanto timidi pareggini. E poi l’effetto del gol di Muntari non andrebbe dimenticato mai, quando si parla del campionato appena concluso.
Ma a quei 40 mila tifosi del Napoli presenti ieri a Roma sono sicuro che questo non interessava. Quella marea azzurra poco composta ma pacifica che ha sventolato bandiere per più di due ore e ha cantato quasi senza un attimo di sosta, sono sicuro che aveva nella testa e nel cuore ben altro. La voglia di battere sul campo un nemico storico e più che odiato – perché radicato quasi fosse una parte di noi – deve aver pian piano fatto posto alla volontà sempre più trasparente di sentirsi in cima. Il primo gradino del podio, dopo non so più quanti anni. Perché tutti si divertono a contarli, ma se parliamo di gente della mia generazione, i 25 anni valgono 3 secoli. Noi non c’eravamo. Parlo di noi. Ne abbiamo visto le urla da bambini, qualcuno avrà pure tenuto la mano del padre in preda all’infarto, ma non conoscevamo il sapore della vittoria. 25 anni o un millennio non fa differenza. Qualcuno ce lo raccontava, le immagini ti aiutano a ricostruirti una verità di cui però non facevamo parte. Questo è stato bello vedere più d’ogni altra cosa: passare da un tecnologico e malinconico “l’ho visto” ad un esaltante ed incontrovertibile “io c’ero”. Ci siamo, ieri c’eravamo. Stanotte per le strade. Prima dell’incontro riflettevamo se fosse giusto lasciarsi tutto alle spalle: le bombe, la natura in qualche modo molesta, un momento storico in cui accettiamo di essere additati o colpevolizzati perché sorridiamo di una semplice e sempre più troppo economica partita di calcio. Davanti allo schermo, mentre guardavo quell’onda azzurra intonare quell’inno così napoletano, così nostro tanto da diventare l’arma bianca dell’avversario frustrato, ho deciso e ho capito che ogni forma d’amore detiene in sé la rinuncia. Senza determinare un vuoto, senza per forza doversi sentire morire dentro. Se l’amore è il contrario della morte, non è detto che la passione non possa convivere con la coscienza del proprio tempo. Aspettavamo da mille anni ciò che è successo ieri, per quanto ne so. Senza dover dare un valore alla coppa, dimenticandosi che un ragazzo di talento aveva deciso comunque di andarsene per soldi o fama o troppo amore, non lo sappiamo. Dimenticando pure la voglia dei nostri vicini di seppellirci sotto la lava, dimenticando le centinaia di delusioni ed errori che la nostra gente, la nostra città, si porta appresso da così tante decadi, noi diventati vessillo d’una nazione non nazione, questa nostra, che quando c’è da spiegare al mondo com’è che si sbaglia non ha dubbi: Napoli, è ciò che decanta. Dimenticando la violenza di alcuna gente che si protegge da tifoso, dimenticando che piove e la città sprofonda, dei negozi della camorra, della cultura del favore come unico varco d’entrata. Dimenticando, ieri, anche il botto assurdo a spezzare l’ennesima vita, dimenticando le macerie di un paese che si tiene a galla grazie alla “speranza”.
Sarei voluto essere fra la gente festante tra le mie strade, in mezzo ad ognuno di voi, insieme a voi; tra quelli che qualche volta mi trovo a maledire, perché ignoranti, chiassosi, sempre poco egregi; e anche fra quelli con la camicia di sartoria e il balsamo per i capelli, l’altra faccia di questa babele di genialità e disgusti.
Vedervi immersi in questo mare di traffico e spintoni, mi ha fatto sorridere e mi ha liberato da questa grande catena che in questo paese è più di una religione, è più di un Dio: sul primo gradino del podio, per una coppetta, abbiamo potuto fare a meno della Speranza, per una sera, sentirci tutti incredibilmente felici. Come non succedeva da 25 anni. Un secolo, per quanto ne so.