Ieri avevo la forte sensazione di dover scappare. Sentivo proprio il peso di quei numeretti in alto a sinistra, che raccontavano di una perdita di consapevolezza, più che di una sconfitta calcistica. Si sentiva stonare la mia canzone da quegli spalti in festa, e sembrava una enorme grande bugia. Come molte cose in questo paese, giubilo o tragedia, la prima cosa che salta agli occhi è un senso di menzogna lancinante.
Sono salito sopra ed ho cominciato a scrivere questo articolo, ponendo una serie di accenti contraffatti da alcune cose. In primis c’erano tutti quegli striscioni e quei canti così beceri e specifici che sembrano voler relegare il nostro popolo ad una massa informe di retrogradi camorristi poco avvezzi all’igiene personale. Ero arrabbiato, allora ho fatto le mie ricerche, andando a cogliere una lista di persone illustri nate a Torino.
8. Otto nomi, che spaziavano temporalmente dal 1600 ad oggi. 5 di questi erano di casa Savoia, e onestamente non ci trovo proprio nulla di buono in un principe, in un re. Mi chiedevo se quel tipo di odio così stupido che dimostravano, fosse figlio di superficialità o reale ignoranza. Trovandosi poi tutti a riempire l’aria di note e di parole che non sarebbero mai potute uscire e mai usciranno da sotto le alpi. Ho concluso col dirmi che l’essere juventini è una sorta di sottocultura, qualcosa che non ha niente a che fare con l’appartenenza, quanto piuttosto è un’esigenza. Calabresi, marchigiani, uomini di Basilicata, siciliani di periferia, salernitani dimenticati, insomma “Il popolo bianconero” non ha terra, non ha tempo, e se cammini per Torino, dentro un circolo, in una piazza grigia come il loro cielo, allora capisci pure che essere di Torino, legandolo al calcio, è essere granata. Forse è quella famiglia Agnelli l’unico vero legame della Juventus col territorio. Tutto quello specifico odio (diverso dal normale infantilismo, anche violento, presente in TUTTI gli stadi d’Italia) nei nostri confronti è figlio di un atteggiamento. Quello del padrone, quello che il diverso serve soltanto a raggiungere lo scopo, quello dove la differenza non è crescita ma paura. La rabbia per la sconfitta, unita a quella derivante dal vedere e sentire quei soliti canti e slogan d’odio razziale stavano portandomi ad odiare a mia volta. Poi stamattina ho ascoltato “Padania”, l’ultimo singolo del gruppo Aftehours (milanesi d’Italia) e mi sono ricordato di Christian Maggio il vicentino, di De Sanctis di Guardiagrele, di Bigon il padovano, di De Laurentis il romano… e allora ho soltanto riso alle idiozie naziste del razzismo. Non potevo criticare l’ignoranza o la vuotezza partendo da una connotazione geografica. Avrei fatto come loro, peggio di loro. Non voglio issare le bandiere del sentirsi tutti italiani, ma credo che essere juventini debba essere veramente alienante. Appartenere a tutti, cioè a nessuno. Dev’essere davvero dura per i ragazzotti di Reano o di Rocca Canavese, non riuscire a sentire quel senso di appartenenza che il calcio deve necessariamente innescare e amplificare al massimo. Come succede, ad esempio, qui in questa città azzurra e un po’ troppo dimenticata da noi stessi abitanti. Quei tifosi (non tutti, com’è giusto dire) che inneggiavano a catastrofi e non curanza sono vittime di esigenze storiche e culturali, ma non li rendono diversi dagli stolti che pure si aggirano nello stadio di Fuorigrotta. Sono teneri quelli che chiedono magie distruttive alla natura e poi cantano a memoria quell’inno stupendo, figlio di Napoli. Juventus – Napoli è sempre stato questo: lo scontro fra il sogno e la realtà; tra l’arte di arrangiarsi e la catena di montaggio; tra una fierezza specificatamente partenopea ed una confusione apolide; tra la voglia di sapersi sempre vincenti e l’abitudine alla sofferenza come orgoglio. Tra due squadre quasi sempre forti, proprio come ieri. La Juventus di oggi è squadra tosta, provinciale nel senso buono, che corre e lotta come quelli che devono colmare un gap enorme, come quello fra terra e cielo; ordinata e lucida e con quel po’ di spocchia data dalla consapevolezza. La Juventus di ieri, di quest’anno tutto, assomiglia molto al popolo napoletano, perché Napoli è un po’ ovunque, in questo paese. Se c’è da parlare di eccellenze o di degradi, Napoli è sempre un ottimo metro di paragone. E sono convinto che questo sia chiaro a tutti i tifosi juventini, da Conegliano Calabro ad Ivrea. Quell’odio specifico che dimostrano nei nostri confronti in molte parti della penisola, è fatto in parte anche di quel sano sentimento di poca indulgenza che si ha nei confronti di se stessi. Ma io agli slogan dello Juventus stadium o della Curva B, preferisco anteporre frasi di grandi italiani, come Benedetto Croce: e su questo terreno, traballante a ogni passo, dobbiamo fare il meglio che possiamo per vivere degnamente, da uomini, pensando, operando, coltivando gli affetti gentili; e tenerci sempre pronti alle rinunzie senza per esse disanimarci.
Ah, già, la partita: che qualcuno riempia di nuovo le brocche degli azzurri. Apparsi stanchi, svuotati e anche un po’ troppo confusi. L’infortunio di Maggio, il non avere dei sostituti adatti quando qualcuno è costretto a mancare o appare fuori forma, non diventino scuse. Mazzarri conceda a gente come Pandev l’opportunità di essere davvero parte integrante della stagione, del gruppo. C’è niente da perdere, c’è tutto da perdere: domenica contro la Lazio l’unica cosa che non vorrei vedere è la bandiera bianca, un segno di resa. Non pretendiamo dal calcio una rivalsa sociale, e sappiamo che questi ragazzi son forti, sanno essere squadra, hanno sostanza oltre che qualità tecniche. Che lo dimostrino: sabato sarà la prima delle tre volte in cui vedremo Roma, tutte e tre fondamentali per gli obiettivi di stagione. Torino dimenticata, Roma caput mundi. Qui Napoli, il mondo intero.