Negli ultimi tempi ho letto alcuni libri, ma un paio soltanto sono quelli che ritengo degni di menzione. Fra questi c’è Ai confini della surrealtà di Gianni Mattioli, un libro particolare, con un impianto insolito ma molto curioso. Si tratta di una raccolta che comprende dieci racconti incentrati su storie che vanno oltre la vita reale e che hanno una peculiarità: erano tutti sceneggiature di cortometraggi. Da due di questi dieci racconti sono, in realtà, già stati realizzati dei corti che hanno poi vinto importanti premi nel settore del cinema indipendente. Mattioli si è ispirato a una fortunatissima serie Tv (all’epoca le serie si chiamavano telefilm) della fine degli anni Cinquanta/inizio Sessanta, intitolata Ai confini della realtà, scritta e prodotta dallo sceneggiatore americano Rod Serling. Ma nonostante questo, il libro è molto napoletano, pieno di brio ed energia, una raccolta che ci sentiamo di consigliare soprattutto per il suo intento che è quello, come dice lo stesso Mattioli, di “far sorridere pensando”, riflettendo su temi esistenziali e sociali indagati con occhio ironico e grottesco. Fuggire dalla realtà è, in certe circostanze, non soltanto auspicabile, ma proprio necessario. I racconti brevi di Mattioli si focalizzano su storie basate sulle vite di persone comuni che cambiano radicalmente incontrandosi – e scontrandosi – con l'”ignoto”, con uno squarcio nella realtà che fa diventare plausibile anche l’impossibile. Grazie a particolari colpi di scena finali, la visuale del lettore viene completamente ribaltata e questo rovesciamento capovolge quindi la prospettiva delle cose.
Ho chiacchierato con l’autore per approfondire alcuni aspetti di Ai confini della surrealtà. Gli chiedo se ha autori di riferimento, mi risponde che è stato influenzato dagli autori del Novecento napoletano come Peppino Marotta: infatti, analizzando il libro, gli incipit ricordano veramente qualcosa de L’oro di Napoli. Mattioli ha cercato di ricreare l’atmosfera surreale dei film a episodi della commedia italiana degli anni Sessanta. Mi spiega che il libro è composto da piccole sceneggiature di corti che non ha mai potuto realizzare e che lo vedrebbe trasposto in un film a episodi, proprio come quelle commedie di cui si diceva prima, quelle degli anni Sessanta e Settanta, possibilmente in B/N. E che mi dice dello stile? “Non crede di averne marcato uno in particolare, ma piuttosto di aver cercato di scrivere in modo chiaro e pulito, senza troppi fronzoli o barocchismi, senza alchimie intellettualoidi, cercando di usare uno stile asciutto e secco, usando molte frasi incise: il concetto e punto. È anche un libro appassionato, perché rispecchia un po’ il mio carattere e il mio modo di vedere le cose, con la giusta osservazione e il giudizio necessario. Ma come dice Moscati nella prefazione senza polemica e senza mettermi dalla parte dell’uno o dell’altro personaggio, cercando di mantenere un punto di vista centrale e sempre obiettivo. C’è molta Napoli in questo libro, c’è molto del modo in cui io vedo il mondo, e le cose, molto del mio tentativo di combattere le brutture – ad esempio la pubblicità del racconto Non s’interrompe un’emozione – o di utilizzare l’arma del romantico, come nel caso di Oltre la fine. Sono un sognatore, lo sono al cinema come a teatro, m’immagino delle storie fantasticando di realtà più benevole, più rassicuranti. Forse vivo male, in questo periodo sopravvivo come tutti noi, allora cerco nel sogno sul telo bianco, o in un racconto surreale, quel mondo che non esiste, quell’araba fenice che tutti sogniamo ma che nessuno ha mai visto davvero.
Nient’altro da aggiungere, se non consigliare la lettura di Ai confini della surrealtà. La prefazione al libro è di Italo Moscati, scrittore, sceneggiatore e autore Tv.