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Cultura, Teatro

Dario Fo, il cantastorie anarchico affezionato ai dialetti

Dario FoE qualche giorno fa se n’è andato anche Dario Fo (Sangiano, Varese, 1926 – Milano, 2016), grande autore di teatro di questo nostro Novecento ormai passato, oltre che intellettuale di spicco del Paese. Però, non solo: drammaturgo, attore, regista, scrittore, illustratore, pittore, scenografo e attivista italiano, recita, infatti, Wikipedia se googli il suo nome e cognome. Come ogni volta accade per la scomparsa di un personaggio tanto potente quanto bizzarro e singolare (un weirdo forse potrebbero definirlo gli americani) la notizia ha fatto scattare parecchie polemiche sull’effettiva bontà artistica di un autore molto a sinistra che tanta influenza ha avuto sulla nostra cultura di massa. Certo, magari si trascinava ancora troppo dietro la militanza in una politica figlia del Sessantotto, dentro la quale era rimasto incastrato, e un’ideologia che prendeva di mira, fra le mille altre cose, una Chiesa vorace, mentre impiegava metafore altomedievali per discettare di preti laidi e ingordi, di Papi come Bonifacio VIII e di luridi maiali che mescolavano nel proprio tratteggio toni dell’età intermedia con rimandi orwelliani nello stesso tempo.

Ricordo mia madre e mia nonna che lo seguivano in televisione, ma io ero troppo piccola per riuscire a decifrare quel Grammelot (una lingua inventata, effetto di mille contaminazioni linguistiche e culturali) così veloce e denso di riferimenti sociali e politici. Un Grammelot che lui riusciva a rendere anche con gli accenti e i suoni distanti di altre lingue, dall’inglese al francese, fino al tedesco. All’inizio però no, non mi convinceva, ma forse ero io che facevo fatica a comprenderlo, non lo nego. Lo trovavo goffo ed esageratamente grottesco, e poi addirittura ridicolo e troppo ridondante. Così decisi di approfondire, di leggere qualche libro e di vedere qualche suo lavoro per capirne di più, perché comunque m’incuriosiva molto. Del resto, aveva tutto il diritto di essere seguito: aveva qualcosa da dire e probabilmente quel qualcosa lo diceva anche piuttosto bene, come sottolineò il Nobel ricevuto nel 1997 per la letteratura. Così, nel tempo, ho letto La Figlia del papa, Razza di Zingaro, Il tempio degli Uomini Liberi e Charles Darwin. Ma siamo scimmie da parte di padre o di madre? E poi altre cose. Ho capito che Dario Fo, noto per le censure e i diverbi con la Rai per questioni di solito di natura politica, era per la diffusione del sapere contro il dominio e il controllo dei potenti. Ho capito che ci teneva che la gente sapesse leggere, interpretare e verificare di persona i fatti, la politica, il proprio futuro. Ho preso quindi a guardare le sue opere, quelle più strane, quelle più contaminate dal punto di vista linguistico, quelle di narrazione, dal capolavoro Mistero Buffo (in cui si parla di tantissime cose, dalla storia di Dedalo e Icaro fino al racconto della Resurrezione di Lazzaro, per citare due momenti) a Fedayn e Francesco Lu Santo Jullare. Mi sono ancora più interessata a lui quando (da traduttrice e appassionata di lingue) ho scoperto il lavoro fatto su vernacoli, italiano regionale e dialetti intessuti alla lingua standard per ricavarne una curiosa fusione che gli ha permesso di ironizzare, dissentire e deridere il mondo intorno a sé, e in particolare di farsi beffa di quelli che oggi chiamiamo “poteri forti”, quelli che forse, in fondo, tirano ahimè i fili di tutti noi burattini. E ancora ne ho apprezzato il lavoro sulla figura della donna, portato avanti insieme alla compagna di una vita, la brillante Franca Rame, l’aver traghettato la cultura “alta” e “altra” verso una dimensione pop (ricordiamo gli interventi con Celentano, Jannacci, la Cortellesi e Mika) e l’essere stato un sarcastico e, soprattutto, un vero giullare, barbarico ante litteram.

Quando poi, infine, ho capito il legame con Napoli, con Eduardo e con Massimo Troisi, ho voluto davvero andare a fondo. Napoli per Dario Fo era una città nobile e amata, nonostante con lui sia anche stata spietata, soprattutto dopo l’episodio in cui un suo parente, un consuocero, ci perse la vita nel 2005 in seguito a una rapina finita male. Un Paradiso abitato da Diavoli, avrebbe detto Benedetto Croce. E su Napoli Dario Fo scriveva così, nel 2009, in un pezzo per il Mattino, in occasione della seconda edizione del Napoli Teatro Festival Italia: “la televisione si preoccupa non di risvegliare, ma di addormentare gli animi e le menti con i quiz, i giochini, i reality e i talent show. Il teatro, però, può fare ancora di più. La nascita, proprio a Napoli, di questo grande festival, oggi alla sua seconda edizione, può donare un gran bene alla città, perché apre le sue porte al mondo e al mondo fa conoscere non la sua «Gomorra» e la sua «munnezza», ma la cultura, l’antica, nobilissima arte del palcoscenico in cui Napoli è maestra da secoli. Tutte le città, a Nord e a Sud, hanno un terribile bisogno di cultura. Napoli ancora di più”. Ancora, Fo parla spesso della grandeur di stampo soprattutto culturale della nostra città e di come Napoli subisca spesso e volentieri attacchi di tipo politico e mediatico “che avrebbero (sue parole testuali) sotterrato per intero qualunque altro popolo”. La città, secondo lui, è sempre rimasta in piedi grazie alla grande forza e all’innata energia creativa, sentimentale e popolare. Questo, però, non ci permette di rimanere immobili di fronte alle copiose problematiche locali. Napoli, secondo lui, ha un dovere morale verso se stessa e non si può più permettere di andare a avanti tirando a campare crogiolandosi nella filosofia del “cca niusciuno è fesso”.

Massimo Troisi, invece, l’aveva visto a teatro ancora ai tempi de La Smorfia ed era stato conquistato dal famoso miniatto in cui Troisi interpretava la Madonna. Dario trovò quel giovane attore moderno, surreale, magari un po’ sognatore ma decisamente lunare. Gli piacque molto che per poter determinare quel ruolo il giovane non usasse nient’altro che un fazzoletto bianco sulla testa, ne apprezzò la delicatezza e il garbo dei toni e dei contenuti e il fatto che Massimo fosse un po’ insicuro, un irresistibile  “mamo” (nel teatro italiano dell’Ottocento, personaggio del giovane timido e ingenuo che vuole apparire scaltro) senza forse nemmeno sapere di esserlo. Individuò subito in lui l’eredità del grande Eduardo, con il suo afflato struggente e acuto, malinconico e gentile. In più di un’intervista, lo aveva addirittura definito “fratello nell’arte” e ne aveva amato profondamente quell’insicurezza esistenziale innata tipica dei napoletani che Troisi, con la sua originale vena di lucida disillusione, era riuscito a trasformare nella sua afasica cifra artistica.

Negli ultimi tempi Dario Fo aveva cominciato una sorta di sodalizio political-artistico con Beppe Grillo e GianRoberto Casaleggio con i quali, nel 2013, aveva scritto il libro Il Grillo canta sempre al tramonto. Ecco, in questi anni l’ho seguito abbastanza e oggi posso dire di averci capito qualcosa. Qualcosa, non tutto, è evidente. E posso anche dire che adesso avverto un altro vuoto in questo panorama artistico un po’ triste, con poche isole su cui approdare.

Ciao Dario, spero che il senso del tuo teatro politico rimanga da modello per le nuove generazioni e che la tua passione rimanga ancora per lungo tempo accesa dentro chi, come me, ti ha seguito e ti ha ammirato.

Rimandi:

https://www.youtube.com/watch?v=kU8bxTTm1OE   (ricordo di Dario Fo su Eduardo de Filippo)

https://www.youtube.com/watch?v=HSA84rSd0PI  (Dario Fo su Troisi e La Smorfia)

[Foto: cultora.it]

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